La Metodologia di ricerca, didattica e progettazione

La metodologia di ricerca, didattica e progettazione

L’interesse che l’Istituto nutre per le questioni di carattere metodologico è dovuto a diverse ragioni: da un lato l’Istituto «estrae metodologia» da capolavori «artistici», e lo fa con metodo «scientifico»; da un altro lato l’Istituto «insegna metodologia» facendone l’oggetto principale di una didattica basata sull’acquisizione di «competenze» oltre che di «conoscenze»; una didattica che, dallo studio di oggetti «particolari» e concreti consente di ricavare principi «generali» di narrazione e composizione degli oggetti stessi.
All’interno di una «nuova didattica interdisciplinare delle arti narrative» l’istituto pone al centro il problema metodologico. Da troppo tempo la scuola è malata di «contenutismo ideologico»; di conseguenza considera l’apprendimento un problema che concerne solo «quali contenuti trasmettere» e «come farlo nel modo più rapido e indolore possibile». La «metodologia» nella scuola sembra inoltre riguardare soltanto i docenti, il modo in cui essi riescono più o meno efficacemente a «inculcare nozioni e verificare se sono state apprese». La scuola non sembra mai riguardare come si fa ricerca, come si scrive, come si compone, come si narra, come si scopre e come si inventa. Queste cose sono lasciate alla libera e spontanea creatività degli allievi, e perciò ai peggiori automatismi.
L’approccio ai testi che costituiscono il nostro bagaglio culturale, il nostro patrimonio di conoscenze, la nostra cultura, continua ad essere solo di tipo storico, sociologico e psicologico; così vengono incentivate l’erudizione, l’opinionismo e la dietrologia. Il confronto tra i testi non avviene che per questioni superficiali, tecniche, sociologiche, storiche. L’idea dominante è che la cultura si studia solo:
– con la storia che mira a contestualizzare i testi e a interpretarli sempre (anche quando sono capolavori artistici universali) come fenomeni rappresentativi unicamente del proprio tempo;
– con la sociologia che tenta di capire come mai un testo è stato accolto, apprezzato o censurato dal pubblico e dalla critica;
– con la psicologia che crede di poter indagare le turbe psichiche che agitano l’animo degli autori e di spiegare con esse la complessità dei testi.
Il risultato è che la cultura è trattata come un complesso di dati interpretati secondo luoghi comuni e suddivisi per settori ben distinti tra loro, che possono interagire solo attraverso un generico tema comune su cui far convergere «interdisciplinarmente» i diversi contributi critici (ad esempio: la «luna» dal punto di vista letterario tema prediletto di tanti poeti, la luna dal punto di vista storico oggetto delle conquiste spaziali e della competizione USA/URSS, la luna oggetto di studio geografico e astrofisico e magari anche chimico considerando la sua materia).
Inoltre i «temi» che vengono identificati per pretestuose attività interdisciplinari non aiutano ad entrare nel merito della costruzione dei testi, ma anzi li omologano per categorie superficiali e stereotipate come i «generi», con il risultato che un capolavoro artistico è equiparato a un prodotto della cultura di massa televisiva purché parli di mafia, di terrorismo, di bullismo, di amore adolescenziale, di malati terminali, di migranti, di femminismo etc. I testi vengono «usati» e non studiati; sono considerati solo come «pretesti» per sostenere finti dibattiti precostituiti e vere lezioni ideologiche, a tesi, che l’allievo deve imparare a recitare quando occorre, per farsi riconoscere come un obbediente campione del senso comune. Il menu del palinsesto culturale scolastico (proprio come quello televisivo) offre non solo l’esplicita «lezione ideologica» di presunto e indiscutibile impegno civile, sempre utili nella vita quando si tratta di sostenere un discorso stupido; offre anche la «divulgazione», che promette «l’illusione della conoscenza» senza sforzo, piuttosto che l’insostenibile «consapevolezza della propria ignoranza» e la necessaria fatica per apprendere e crescere. E infine, come dessert, il menu offre la «dietrologia interpretativa», soluzione apparentemente più sofisticata perché consente a qualunque «creativo» una via d’uscita per camuffare le proprie psicosi, la propria ignoranza e la propria superficialità, autorizzandolo a «girare intorno» al testo, a ricercare «dietro» – piuttosto che dentro – significati ovviamente «segreti», che puntualmente emergono, come in una seduta spiritica, quali proiezioni delle sue ossessioni, rendendo così i testi utili solo a scatenare le associazioni psicologiche di interesse personale e a scambiarle per «interpretazioni originali» dei testi stessi. Dovrebbe apparire evidente che le associazioni psicologiche, arbitrarie, soggettive, che il soggetto produce osservando un testo e trattandolo come una «macchia di Rorschach», non possono aiutare a comprendere il testo ma semmai la mente di chi lo «usa», come «pretesto», per parlare dei propri problemi. Invece sono troppo spesso l’ingrediente più apprezzato di ciò che oggi viene prodotto e offerto come strumento di studio nelle istituzioni accademiche (lo studioso «impegnato» sempre pronto a dimostrare le proprie tesi politiche oppure lo studioso ossessionato dalle proprie psicosi e sempre pronto ad applicare ad ogni oggetto le proprie pretestuose manie interpretative: cos’è mai peggio?). Ma a quale titolo un critico, o un docente di critica, chiede ai propri lettori, o studenti, di ascoltarlo, leggerlo e magari anche pagarlo per le sue sorprendenti «associazioni»? Sarebbe più giusto che le rivolgesse al proprio psicoanalista e che accettasse di dover pagare lui una parcella, per essere ascoltato e analizzato, piuttosto che pretendere che i suoi lettori/ascoltatori la paghino a lui, anche solo con la disponibilità a sopportarlo come esperto della materia (quale materia? La sua mente disturbata?).
Si potrebbe pensare che questo modo perverso di insegnare sia riservato solo alle materie umanistiche, considerate troppo spesso frutto di estro e di impulsi irrazionali non spiegabili con la scienza.
Paradossalmente persino le materie scientifiche sono trattate come un insieme di assiomi, di conoscenze da memorizzare; solo in misura minore sono considerate come un insieme di procedimenti metodologici da acquisire. I manuali stessi sono concepiti come un cumulo di giudizi da acquisire e da ripetere per ottenere un voto e un diploma. Perfino la scienza non è trattata come una metodologia per affrontare il reale ma come storia di scoperte e di applicazioni in campo matematico, fisico, biologico, chimico etc. D’altro canto la divisione tra «materie umanistiche» e «materie scientifiche» è ancora una barriera insormontabile, anche se con le parole – e per assurdo – tutto è diventato scienza (e dunque nulla è scienza): “scienze umanistiche”, “scienze dello sport”, “scienze dell’alimentazione”, “scienze dell’educazione”, etc. Quello che invece non è accaduto – e che potrebbe non accadere mai – è che almeno lo «studio» della letteratura, delle arti visive, della musica, e oggi magari anche del teatro e del cinema, sia considerato occasione per acquisire, sperimentare e apprendere «metodologie» per analizzare e comporre i testi.
La maggior parte dei manuali non aiuta lo studente ad acquisire le competenze dell’autore – o degli autori – degli studi che essi contengono, anzitutto perché contengono solo studi e non, anche, riflessioni metodologiche sul modo in cui sono condotti gli studi stessi; inoltre, troppo spesso, gli stessi autori degli studi non sono in grado di distinguere i «giudizi» dai «criteri di giudizio» che assumono inconsapevolmente; non conoscono le «teorie» implicite – quando non sono luoghi comuni o ideologie – che adottano nel formulare giudizi; e pensano che il loro compito sia solo quello di fornire i giudizi da loro ritenuti più validi di altri, piuttosto che insegnare come giungere a formularli.
Così, paradossalmente, è assai improbabile che uno studente che utilizzi un manuale di storia dell’arte o di letteratura possa ricavare – tra le informazioni fornitegli oltre quelle di carattere storico – alcuni «criteri» per poter tentare lui stesso di analizzare una nuova opera, applicando quanto appreso in una lezione su un particolare testo. Potrebbe infatti scoprire che spesso anche nei manuali in conti non tornano. Qualora infatti riuscisse ad esplicitare i criteri impliciti adottati dall’autore nel formulare un giudizio su un’opera, e tentasse di applicarli allo studio di un’ulteriore opera prima di leggere i commenti su di essa, egli giustamente si aspetterebbe di giungere alle medesime conclusioni dell’autore; ma questo non accadrebbe necessariamente, perché in molti casi, cambiando gli oggetti di studio, lo studioso potrebbe aver cambiato, implicitamente, i criteri di giudizio. In questi casi non resta, al povero studente, che immagazzinare tanti giudizi incomprensibili e tante conclusioni inverificabili da recitare su richiesta.
Anche questo fa parte del «metodo» scorretto con cui oggi si fa pedagogia: in modo dottrinale, senza parlare delle teorie scientifiche assunte nel condurre uno studio (qualora se ne siano assunte) e senza parlare di altri studi condotti da diverse prospettive sul medesimo oggetto di studio; impedendo così allo studente di rifare i conti in tasca al docente, e di considerare il «caso» trattato come un «esempio» da cui trarre insegnamenti di carattere metodologico per poter trattare autonomamente altri casi.
Perché questo possa accadere il docente dovrebbe essere tale non per il potere conferitogli dal suo ruolo, ma per autorevolezza, non presupposta ma conquistata, in ogni momento, mostrando senza timore ai propri studenti «come» egli è in grado (se lo è davvero) di trattare una questione: ricavando per via scientifica, dalla correlazione tra informazioni preesistenti, nuove informazioni. Ma questo sarebbe un altro modo di fare didattica, basato sulla partecipazione degli studenti a un vero e proprio «laboratorio di ricerca scientifica», dapprima come osservatori, poi come sperimentatori, poi come ricercatori; un laboratorio dove il docente, mentre fa ricerca, si fa osservare e «maieuticamente» coinvolge i suoi allievi nel processo di indagine.
La scuola di oggi sembra invece avere adottato come modello pedagogico – o peggio demagogico e ideologico – quello delle televendite e della politica, dove il docente «dimostra» abilità che spesso non possiede, recitando un piccolo spettacolo – magari una «presentazione multimediale» – come uno speaker televisivo, o meglio come un prestigiatore o un attore, prevedendo persino battute e sorprese per strappare al suo pubblico inconsapevole applausi e consenso, senza preoccuparsi di ciò che alla fine dello show i suoi studenti avranno appreso. D’altro canto egli sa che il pubblico soddisfatto, dopo aver goduto di una più facile ed emozionante esperienza spettacolare, non trova ragione per chiedere conto di ciò che avrebbe dovuto apprendere. E’ la differenza tra «dimostrare» e «mostrare», che Rossellini ci ha insegnato a tenere bene a mente quando «insegniamo» e non «recitiamo». Si «mostra quello che si si fa e si sa», si «dimostra quello che non si sa e non si fa». Per dimostrare di essere un bravo scienziato non occorre essere uno scienziato, altrimenti non esisterebbero tanti attori e truffatori che ci convincono più di un vero scienziato; basta saper interpretare una parte ben scritta. Questo è quello che imparano anche gli studenti: a recitare ciò che non sanno, che non hanno capito ma che consente loro di dare l’idea di saperlo.
Non a caso nel nostro mondo dominato dalla «comunicazione» sono proliferate sedicenti scuole e università online che offrono diversi livelli di truffa. Anzitutto quello che si può trovare anche in una scuola o università che si è allineata ad esse: si fa presenza, si dichiara che il docente è bravo, e, grazie alla partecipazione, si ottiene un diploma che permette di attestare competenze che non si possiedono e di far pervenire, alla scuola o università, sia più finanziamenti – in relazione al successo delle presenze – sia più studenti – per il passaparola sulla facilità di conseguimento dei titoli di studio. Poi c’è il livello un po’ più ambiguo, che consiste nell’iscriversi a corsi più brevi e sintetici online, dove non è richiesta neppure la presenza fisica, e dove si possono scontare come crediti varie attività svolte in precedenza. Infine c’è il livello più esplicitamente truffaldino, che consiste nel comperare un diploma semplicemente pagando, come «clienti», per il servizio offerto, in genere caro ma rapido ed efficace in quanto – purtroppo – equiparato a quello che si ottiene studiando.
Ciò che è più sconfortante è che già la scuola di base sia condizionata da un modello formativo efficientistico con una concezione dell’apprendimento settoriale e con una visione specialistica orientata al mercato del lavoro. In questo modo si perde l’occasione di far sperimentare ai ragazzi, preliminarmente, «come» si studia e come si crea un’opera d’arte, e come ragiona uno studioso e un autore, prima di fornire loro una quantità di «nozioni» che in quanto tali verranno rapidamente rigettate, perché scollegate sia tra loro sia con quelle già in possesso dei discenti. Si forniscono, invece, conoscenze tecniche, utili forse per svolgere un lavoro, ma inadatte a sollecitare capacità elaborative disinteressate, come quelle che può offrire lo studio metodologico dei procedimenti della scienza e dell’arte.
Come può, dunque, questa scuola contribuire alla formazione di nuovi artisti e scienziati, se l’arte e la scienza sono trattate come «materie», al pari delle altre, come insiemi di «nozioni» da apprendere e collezionare insieme ad altre di tipo storico, tecnico, sociologico, psicologico? Quando iniziammo la nostra attività, cominciava ad andare di moda portare nella scuola la musica, la pittura, il teatro, il cinema per farne attività di «animazione», per favorire la «socializzazione» e la «spontanea creatività». Noi ci convincemmo, invece, che questa opportunità andava sfruttata, proprio a partire dalla scuola di base, non per introdurvi un po’ più di spontaneismo, o per aggiungervi ulteriori lezioni tecniche o storiche o sociologiche, ma per mettere in moto quel pensiero logico, quelle capacità logiche elaborative che purtroppo già dalla scuola di base venivano inibite anziché stimolate. Da allora tutta la nostra attività si è svolta su due piani:
– da un lato ricercare nei progetti e nelle ricerche di artisti e scienziati tutta la metodologia da loro utilizzata: il loro modo di ragionare, di sviluppare idee, che rende un loro progetto mai vecchio ma sempre un modello esemplare di come affrontare una questione, di come risolvere un problema, di come giungere a una scoperta. In questo senso abbiamo privilegiato ovviamente quegli autori e quegli studiosi che hanno dedicato ampio spazio a parlare di «metodo». Ma abbiamo anche considerato quegli autori che hanno lasciato un’opera monumentale in cui il metodo era implicito e bisognava ricavarlo e verificarlo andando a ricercare in ogni segmento dei loro testi quei principi che poi puntualmente venivano ritrovati anche in altre parti, a significare che la loro presenza non era casuale ma frutto di un disegno preciso, di una sistematica applicazione di regole e di uno sfruttamento ottimale dei medesimi elementi;
– da un altro lato abbiamo sempre cercato di fare di questa metodologia l’oggetto di apprendimento in attività di formazione e didattica, facendo in modo che, dalle stesse opere di quegli autori, gli insegnanti e gli studenti potessero ricavare strumenti metodologici per poter meglio controllare i processi analitici e creativi proprio in quei campi – umanistici – ove la scienza è considerata non pertinente, neppure come prezioso strumento di studio analitico e progettuale.

In questa prospettiva il nostro obiettivo primario è diventato rapidamente quello di trasformare «archivi inerti» di opere di grandi autori-studiosi in «botteghe virtuali»: ambienti di studio, formazione e didattica online, in cui creare e rendere fruibili sistemi ipermediali per aiutare gli utenti ad apprendere, da opere classiche, la lezione di metodo racchiusa in esse.

Con questa spinta metodologia abbiamo cominciato a sviluppare i primi sistemi di apprendimento interattivi e reticolari – inizialmente offline ma già in forma ipermediale – che, mentre permettevano di esplorare correlazioni intra- e inter- testuali tra opere di tempi, luoghi e forme espressive diverse tra loro, scoprendo legami impliciti in base a come erano fatti i testi e non in base agli argomenti trattati, al contempo permettevano di acquisire principi metodologici di narrazione e composizione con ogni forma espressiva: «competenze» oltre che «conoscenze».

La nostra metodologia consiste infatti in questo: stimolare l’esplorazione delle correlazioni tra testi di ogni tempo, luogo e forma espressiva, attraverso principi condivisi dai testi stessi; e simultaneamente stimolare l’apprendimento metodologico dei principi utilizzati per esplorare le correlazioni.

I «Sistemi Reticolari E-Learning», che dopo lunga sperimentazione siamo finalmente riusciti a costruire e a rendere facilmente distribuibili attraverso un Sito/Scuola Online, sono stati ottimizzati per far accrescere non solo le «conoscenze» (scoprendo nuovi testi correlati tra loro) ma anche le «competenze» (i criteri di correlazione, cioè i principi di narrazione e composizione condivisi) dei fruitori, facendoli navigare tra i testi classici, ma al contempo definire e studiare i principi utilizzati, nella navigazione, per scoprire correlazioni non immediatamente percepibili tra di essi. Gli utenti dei Sistemi possono infatti ricavare da un segmento di un testo classico tutti i principi presenti, e sono invitati a ricercare quei medesimi principi in altre parti dello stesso testo o in altri testi dello stesso autore o in testi di altri autori; per farlo, essi esplorano un reticolo intra- e inter- testuale di correlazioni, utilizzando e scoprendo i principi condivisi tra i testi o tra le parti di uno stesso testo. I nostri primi esperimenti, in questa prospettiva, hanno avuto per oggetto alcuni capolavori del teatro musicale, altri del teatro di prosa, altri ancora della letteratura, della pittura e del cinema.
Uno dei primi prototipi riguardava l’opera di Louis Carroll, e si sviluppava a partire da Alice nel paese delle meraviglie; con esso mostravamo come si potesse creare un sistema ipertestuale che non fosse chiuso all’interno di un testo (Alice) e che non si sviluppasse solo attraverso il punto di vista di uno studioso settoriale; il sistema reticolare che avevamo ipotizzato ed esemplificato si basava non solo sull’intera opera di Carroll, ma anche sulle opere degli autori che indirettamente avevano dialogato con lui e su quelle di coloro che continuano ancora oggi a dialogare con lui, nonché sugli studi di tutti coloro che hanno compiuto indagini da diverse prospettive sul capolavoro di Carroll, e sui manuali teorici su cui quegli studiosi si sono preparati. Insomma, un sistema che permetteva di esplorare correlazioni interne ad Alice nel paese delle meraviglie, tra Alice e i suoi complementi (illustrazioni), le sue varianti (riscritture) e messe in scena; tra Alice e altri testi di Carroll, tra l’opera di Carroll e quella di altri autori, e infine tra l’opera di Carroll e le riflessioni saggistiche degli studiosi che se ne sono occupati. Riguardo a questi ultimi in particolare venivano messe a confronto, indirettamente, le prospettive teoriche adottate, esplicitando gli approcci interpretativi all’opera di Carroll cioè le teorie assunte come assiomi impliciti, come presupposti delle indagini. Il sistema permetteva di studiare l’opera di Carroll anche scoprendo quei testi correlati che costituivano varianti implicite o esplicite e condividevano con essa una parte dei principi narrativi e compositivi; al contempo permetteva di riflettere sull’opera critica di coloro che avevano hanno il loro ingegno allo studio dei progetti di questo autore e sulle teorie adottate dagli studiosi ma anche dallo stesso Carroll (logica, linguistica, retorica) nell’elaborare i loro testi.
Tra i primi prototipi sviluppammo anche un sistema basato sul «dialogo diretto e indiretto tra Truffaut e Hitchcock», in cui mostrammo come i rapporti tra questi due autori si sviluppassero anche al di là dei dialoghi diretti (attraverso interviste e lettere), ma anche indirettamente attraverso le loro stesse opere narrative oltre che saggistiche, in cui condividevano i medesimi principi di cui parlavano nelle loro conversazioni; principi che si ritrovavano sistematicamente applicati tanto nei capolavori narrativi dei due stessi autori quanto in quelli degli autori non solo cinematografici che essi consideravano loro maestri. Questo sistema permetteva di dare avvio alla costruzione di un «manuale reticolare di narrazione audiovisiva», e al contempo permetteva di applicare il manuale stesso, in modo sistematico, all’opera di questi due eccezionali «autori-studiosi»; quindi il sistema costituiva anche uno studio dell’opera di Truffaut e di Hitchcock da un punto di vista metodologico nuovo, rigoroso e scientifico come i due stessi autori avrebbero voluto. Prima di iniziare lo sviluppo del sistema impiegammo molto tempo nella ricerca dei documenti, e contemporaneamente nello studio sistematico dei progetti e degli studi dei due autori-studiosi. Poi affrontammo i problemi tecnici della realizzazione (bisognava costruire una rete di connessioni tra testi memorizzati su diversi dispositivi offline: CD-rom, laserdisc, hard disc) e quelli non solo tecnici della distribuzione, cercando di convincere editori letterari e audiovisivi – peraltro di due diversi continenti – a cooperare nel mettere a disposizione i diritti d’uso per un grande progetto educational ed eventualmente commerciale che avrebbe rivoluzionato lo studio della cinematografia (il libro in cui era pubblicata la più famosa e più lunga – nonché diretta – «conversazione» tra i due autori era tradotto in numerose lingue e pubblicato in tutto il mondo, ma gli altri scritti e interviste erano sparsi in una moltitudine di media e supporti; così come i film dei due autori erano solo in ripubblicati senza soste prima in formato VHS poi su Laser Disc e quindi su DVD; alcuni di essi non erano stati ancora pubblicati nell’home video).
Un altro progetto su cui investimmo le nostre risorse riguardava l’opera di Ernst Lubitsch, che ci appariva come un perfetto «sistema di variazioni» interne ed esterne al suo cinema; un sistema di variazioni tra i suoi film e opere non solo cinematografiche, di tipo letterario, teatrale e musicale, con cui Lubitsch stabiliva un dialogo indiretto per tessere una parte significativa di quella rete di studi e progetti della nostra tradizione umanistica mitteleuropea su cui egli si era formato. Con questo sistema potevamo mostrare come il cinema d’arte di Lubitsch non fosse altro che la continuazione di quella tradizione artistica che nel teatro di prosa e musicale, nella letteratura e nella pittura mitteleuropea aveva già creato i più alti capolavori. L’idea di iniziare a sviluppare i primi prototipi di sistemi ipermediali sul cinema era nata proprio dalla riflessione che in questo campo più di altri era solo scarsamente e implicitamente applicato il metodo scientifico, sia nella progettazione che nello studio delle opere. Di conseguenza la nostra attenzione si concentrava sulle opere cinematografiche di quegli autori che – come diceva John Ford – erano riusciti a mostrare come si potesse «fare arte anche con il cinema»; il primo (non solo cronologicamente) tra essi era appunto Ernst Lubitsch. L’opera cinematografica di Truffaut e di Hitchcock ci interessava in particolare perché supportata da un’impianto teorico-metodologico creato da questi due autori in quasi quaranta anni di dialoghi e studi sulla narrazione audiovisiva. Inoltre ci interessavano quegli autori che nel cinema erano riusciti a creare nuovi «classici», interrelati da un lato con la tradizione umanistica precedente al cinema, e da un altro con quella contemporaneità che, se non conosceva direttamente la tradizione umanistica, si era almeno ispirata ad essi, creando varianti implicite o esplicite correlate alla loro opera.

In questa stessa prospettiva abbiamo anche lavorato per alcuni anni a un corso/manuale trasversale di perfezionamento autoriale che permettesse agli utenti di studiare «come» alcuni grandi autori (Lubitsch, Chaplin, Hitchcock, Truffaut, Welles, Disney, e qualcun altro) fossero riusciti a creare capolavori d’arte anche nel campo cinematografico; il corso mirava a far acquisire quelle capacità ulteriori – dopo quelle tecnologiche, storiche, e sociologiche offerte dalla formazione universitaria – necessarie per fare non semplicemente un film, ma un un film «come lo farebbe» un grande artista.

Contemporaneamente avviammo una sperimentazione in partnership con l’allora “Area Formazione e Ricerca del Teatro La Fenice di Venezia” sui capolavori dei grandi autori del teatro musicale, per creare i primi prototipi, in forma ipermediale, per lo studio interdisciplinare delle arti narrative, considerando il teatro musicale come il laboratorio ideale per indagare la vera multimedialità: quella straordinaria capacità, sviluppata dai grandi compositori e librettisti, di elaborare progetti narrativi che sfruttino diverse forme espressive per articolare la narrazione su più piani distinti e tra loro complementari. Lavorando sul patrimonio operistico abbiamo scoperto le insuperate lezioni metodologiche dell’«opera totale» wagneriana e delle «disposizioni sceniche» verdiane, che ci hanno permesso di ricavare, dalle stesse opere di questi maestri, alcuni degli strumenti metodologici per studiarle.
Sempre grazie alla partnership con l’allora innovativo ufficio educational del Teatro La Fenice abbiamo potuto sviluppare i primi sistemi dedicati alla narrazione per l’infanzia, a quei capolavori che avevano avuto riscritture esplicite o implicite per il teatro musicale.

Poi insieme all’ ERT Emilia-Romagna Teatro abbiamo sviluppato una serie di prototipi dedicati all’opera di Shakespeare, con cui abbiamo potuto mostrare come essa da un lato influenzi tutta la narrazione contemporanea e da un altro costituisca un ponte per esplorare correlazioni con capolavori artistici di ogni tempo, luogo e forma espressiva. Inoltre abbiamo potuto mostrare come nell’opera di Shakespeare sia presente – e magistralmente applicata – la maggior parte di quei principi universali di narrazione che noi ricerchiamo e cerchiamo di apprendere in opere d’arte di diversa natura.

Ognuno di questi prototipi è stato oggetto di sperimentazione in diverse regioni e in scuole di ogni ordine e grado del nostro paese. Grazie a questi «prototipi offline» abbiamo potuto elaborare un’idea più generale di prototipo di «Sistema Formativo e Didattico Reticolare E-Learning» su cui si basa, ora, la struttura dei nostri Laboratori di studio online, ovvero la «Scuola di Arti Narrative» che intendiamo sviluppare attraverso il Sito.

Di seguito cercheremo di collegare progressivamente i numerosi testi di lezioni, conferenze, saggi che abbiamo prodotto, negli anni, per presentare e illustrare – ai nostri potenziali utenti, sostenitori e partner – la proposta metodologica con cui vogliamo contribuire a cambiare il modo di fare formazione e didattica, in una parola educational.

L’Associazione per la ricerca dei «principi universali della narrazione e della composizione artistica», e per la progettazione di sistemi di studio reticolari, adatti a favorirne l’apprendimento. Dal 1981 si è dato un nome una sede prima fisica poi online al gruppo in continuo mutamento di studiosi auto didatti che collaborano a questa ricerca e che si adoperano per organizzare e realizzare servizi per il mondo educational basati su un’originale modo di valorizzare il patrimonio umanistico: quello di trarre da capolavori tra loro irrelati i principi di narrazione e composizione condivisi per creare una rete naviga libri testi correlati attraverso cui docenti e studenti di ogni età possano al contempo scoprire nuove oggetti da conoscere e nuovi strumenti per conoscerli. I Sistemi di studio o reticolari elearning sono il nostro contributo alla ripresa degli studi umanistici e alla nascita di nuove professioni umanistiche. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisiscile loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisiscile loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica. Vuoi diventare un Classico? Impara dai Classici! Entra nei loro laboratori di studio e acquisisci le loro stesse competenze sotto la loro guida virtuale e attraverso lo studio sistematico dei loro progetti. L’Istituto MetaCultura ti offre gli strumenti adatti per apprendere e insegnare, sviluppare e applicare gli insegnamenti dei grandi maestri della tradizione umanistica.

 

Testi sulla nostra ricerca metodologica:

L’Istituto MetaCultura ha ideato, in oltre trenta anni, un nuovo tipo di sistema di studio per il mondo educational, che assume ad oggetto quel patrimonio dell’umanità costituito dai capolavori classici della narrazione (del teatro musicale, del teatro di prosa, della letteratura per l’infanzia …) e lo trasforma in una serie di laboratori inter-disciplinari e inter-mediali per lo studio delle arti narrative; laboratori che consentono di ricavare da quelle stesse opere gli insegnamenti autoriali di coloro che le hanno create, che hanno inventato la narrazione multimediale e l’hanno elevata al più alto livello raggiunto nell’arte.

I «sussidi ipermediali e-learning» concepiti dall’Istituto per lo studio sistematico, scena per scena, di questi capolavori, assumono come riferimento tutti quei documenti sparsi, rari e preziosi (libretti nelle varie stesure, video e audio di messe in scena storiche, bozzetti e foto di scena, scritti degli autori e note registiche, scambi epistolari tra compositori e librettisti, fonti letterarie annotate etc.) che rappresentano la più attendibile documentazione dell’attività di studio, progettuale e realizzativo, degli autori, e che sono solitamente depositati presso archivi (di fondazioni lirico-sinfoniche, biblioteche, musei).

I sussidi ipermediali e-learning moltiplicano il valore di tali documenti aggiungendovi quello di una rete di «correlazioni intelligenti» tra di essi; correlazioni non immediatamente percepibili, né direttamente identificabili e automaticamente ottenibili in base a legami di tipo storico o contestuale. Tali correlazioni sono create in base a quei principi di narrazione, composizione e messa in scena inerenti ai testi degli autori, che l’Istituto MetaCultura studia da oltre trenta anni distinguendosi come l’unico ente nel mondo specializzato in questa complessa ricerca «meta-testuale»; la rete di connesioni si estende ben oltre l’archivio specifico di un autore, collegando tra loro anche testi apparentemente molto distanti tra loro che tuttavia condividono medesimi meccanismi di funzionamento.

L’Istituto MetaCultura dispone infatti sia del know how scientifico e didattico per creare nuovi tipi di sistemi di studio (reticolari e-learning), sia di propri archivi dedicati ad autori di capolavori letterari, pittorici, teatrali, cinematografici, con i quali ha già realizzato una vasta rete di correlazioni tra testi classici a si collega collega ogni nuovo titolo sviluppato, avvalendosi di un lavoro trentennale in altro modo irrealizzabile.

Esplorare e sviluppare le correlazioni esterne, ad esempio all’universo del teatro musicale, è certamente utile per suscitare interessi in giovani che non conoscono ancora le qualità delle opere liriche, ma che vanno al cinema, guardano la tv e leggono romanzi, e perciò possono essere affascinati dalla scoperta di impreviste ma stimolanti correlazioni con testi che già conoscono.

I sussidi ipermediali e-learning consentono infatti di esplorare correlazioni tra capolavori artistici di ogni tempo, luogo e forma mediale, rivelando – in base alla quantità di principi narrativi condivisi – imprevedibili parentele tra classici del presente e del passato; inoltre permettono di apprendere i principi presenti nei testi mentre li si adoperano come criteri di correlazione e navigazione tra i testi stessi oggetto di studio.

L’Istituto MetaCultura, a differenza di un singolo Ente, ad esempio un Teatro, che può dedicare limitate risorse al mondo educational e alla formazione del pubblico, degli autori e degli insegnanti, è nato con l’unico intento di dedicare alla formazione e alla produzione per il mondo educational tutte le proprie risorse, il proprio tempo, il proprio personale formato appositamente, in anni, con una preparazione umanistica interdisciplinare e intermediale sulle arti narrative.

Rimanendo nell’esempio dei Teatri, possiamo contribuire a una crescita progressiva dell’attività educational dai primi due stadi ottenibili dai teatri stessi, da soli o consorziati, a un terzo stadio che richiede un’ulterirore competenza e un investimento che uno o più Teatri per diverse ragioni non possono fare:

I stadio: archivi dei singoli Teatri gestiti attraverso database per favorire un’attività di consultazione particolarmente utile ad utenti esperti (studiosi che sanno cosa cercare e che sono già interessati all’oggetto).

II stadio: archivi condivisi virtualmente da più Teatri, gestibili come un unico data base; arricchimento della quantità dei dati ma medesimo tipo di attività, di consultazione particolarmente utile ad utenti esperti utenti esperti (studiosi che sanno cosa cercare e che sono già interessati all’oggetto).

III stadio: archivi condivisi virtualmente da più Teatri, non solo gestiti da un unico data base ma anche valorizzati da un sistema di studio in forma ipertestuale che ne correli indirettamente (tra loro e ad altri etsti non solo teatrali le risorse in base a un numero definito di principi di narrazione (ma anche di composizione e messa in scena) condivisi e inerenti ad esse; arricchimento, dunque, non solo nella quantità di dati, ma anche nella molteplicità di impieghi (didattici e formativi) resi possibili dalle correlazioni interne ed esterne sviluppate. Attraverso sistemi e-learning reticolari si offre all’utenza un nuovo strumento conoscitivo che può essere usato per apprendere gli insegnamenti dei maestri della narrazione e al contempo per scoprire dove e come sono applicati, anche al di fuori del campo specificamete teatrale; inoltre tale strumento, a differenza di un data base, può essere usato da utenti inesperti per scoprire testi che non conoscono già, partendo da testi che già conoscono e compiendo navigazioni virtualmente infinite tra i documenti interni ed esterni all’archivio, semplicemente raccogliendo gli stimoli conoscitivi offerti dal sistema reticolare, concepito proprio per favorire lo studio delle correlazioni in base ai principi di narrazione.

– Dalla Conservazione alla Valorizzazione: il caso degli archivi delle Fondazioni Lirico Sinfoniche

Come tutte le ricorrenze, il bicentenario Verdi-Wagner avrebbe potuto costituire una buona occasione per riconsiderare quei luoghi comuni che nel tempo si accumulano intorno a grandi autori divenendo parte della loro stessa fama. Al contrario, anche questa ricorrenza è finita per rivelarsi un’occasione per consolidare tali pregiudizi, e per ridurre il valore della ricerca e dell’opera di questi due grandi autori entro i confini angusti e immeritati della «storicizzazione» e della «lettura ideologica».

Ci sarebbe molto da dire sulla triste abitudine – da parte dei media, degli editori, delle Istituzioni Culturali – di ricordare i grandi autori solo in occasione di ricorrenze, per riabbandonarli all’oblio nei tempi intermedi. Ma almeno potremmo rallegrarci un poco se i Centenari servissero – pur per un breve periodo – a ridare voce ai nostri ignorati maestri, per esempio ristampando la loro opera, ricercando e distribuendo i loro interventi perduti in archivi e magazzini, promuovendo ricerche e progetti per far conoscere «direttamente» il loro lavoro. Invece i Centenari sono per lo più occasione per dare lavoro soprattutto a speculatori che approfittano delle ricorrenze e della celebrità sia pure appannata dei grandi vecchi per autocelebrarsi nonché per arrichirsi alle loro spalle; tanto è certo che non potranno lamentarsi diquello che gli faranno dire per interposta persona e per come verranno usati a fini propagandistici e personalistici. Non fa eccezione questo bicentenario che nonostante i nomi eccellenti e ancora ben presenti nella memoria collettiva per i tanti stereotipi con cui sono ricordati, ha disatteso persino la più semplice e ovvia delle aspettative: la ristampa o addirittura per l’Italia la pubblicazione inedita degli progetti e degli studi di questi autori che potrebbero contribuire anche da morti a mantenere viva quella tradizione umanistica di cui sono stati al contempo eredi e continuatori lasciandoci sciaguratamente il compito di tramandarla.
Mentre tutto il patrimonio del teatro musicale – una di quelle risorse che il nostro paese potrebbe valorizzare per il know how insito in esso – langue per una malattia che lo ha reso oggetto di interesse solo per i melomani, per gli specialisti e per una generazione in via di estinzione (al fuori dal nostro paese l’interesse per la lirica è ancora vivo, anche solo per l’effetto esotico di cui continua a godere), l’occasione per celebrare questi due autori si è di nuovo esaurito per lo più intorno a una rinnovata e insensata ricerca dello scontro tra fazioni – tra verdiani e wagneriani – e ha finito ancora per alimentare quelle polemiche sensazionalistiche su cui si fonda tanta bassa divulgazione, da cui purtroppo non sono estranei neppure i libri di testo e i programmi scolastici. Per molti giornalisti, ma anche organizzatori culturali, riaccendere la fiamma dell’insofferenza tra i mondi di questi due autori, ricercando un po’ di facile consenso intorno a una riduttiva ma efficace opposizione di personalità, è sembrato il modo più adatto per creare interesse, considerando che la polemica e il gossip sono senz’altro il modo più veloce per creare la notizia e per renderla una «scioccante rivelazione» da inserire tra le «novità».

E’ sconfortante che due autori classici possano essere trattati riduttivamente e pretestuosamente come fenomeni antropologici rappresentativi del proprio tempo, da riesumare solo in occasioni di revival e ricorrenze storiche o da citare nei paragrafi previsti dai programmi settoriali della scuola, sottovalutando, o, peggio, nascondendo, il valore metodologico universale dei loro capolavori senza tempo. Ma appare ancora più preoccupante la lettura o rilettura sociologica e ideologica che l’occasione di celebrarli insieme sembra offrire: un ghiotto boccone per chi pensa che l’unico modo per far circolare il nostro patrimonio lirico-musicale sia quello di «attualizzarlo», strumentalizzandolo come «pretesto» per dibattiti politico-ideologici, giustificati da uno pseudo «impegno civile» che permette di «usare» l’arte, al pari di qualunque fenomeno di cronaca o di costume, per fare propaganda politica e ricercare consensi.

Molti pensano che sia un spreco di tempo e di energie cercare nel testo quel valore universale che può farne un classico capace di parlare a un pubblico di qualunque tempo, luogo o generazione – purché competente, cioè preparato per cogliere e apprezzare la complessità dell’arte; molti, infatti – a causa della loro incompetenza – ritengono che sia meglio (o addirittura che non ci sia altro modo che) usare il testo come «pre-testo» per parlare di ciò che sta intorno ad esso (ciò che lo precede e ciò che lo segue) piuttosto che studiare il testo come tale, indagando ciò che sta dentro di esso. In questo modo, anziché interrogarsi su cosa pensa l’autore, ci si domanda cosa ne pensa il pubblico di massa, quali letture riduttive ne faccia in base alle proprie aspettative, proiettandovi le superficiali categorie ideologiche apprese dalla scuola, dalla televisione o da internet. E così, anziché educare il pubblico allo studio della complessità del progetto artistico, lo si diseduca alimentando e giustificando i luoghi comuni con cui si accosta ad esso, quelli trasmessi da un’educazione scolastica ideologica e settoriale, e alimentati dal circolo vizioso del «sentito dire» creato con il rimbalzo tra la televisione ed internet. In questo contesto agiscono le due categorie di «critici» che anche nel nostro paese si spartiscono il mercato dellìopinionismo mediatico: i feticisti pseudofilologi che raccolgono preziosi cimeli, memorailia e gossip da dispensare a sorpresa centellinandoli come erudite scoperte paraarcheolgiche in convegni, saggi e ovviamente articoli sensazionalistici, soprattutto sulla scandalosa e trasgressiva vita privata degli artisti; e poi gli psicodietrologi che accorrono ad ogni ricorrenza ed incidentale occasione di dibattito per proiettare sul lavoro dei grandi le loro personali ossessioni e farci dono delle loro nevrotiche interpretazioni su ciò che secondo loro si nasconde dietro l’opera degli autori, e trattandoci in definitiva come il loro personale analista a cui rivelare il loro disturbato mondo interiore, ma dimenticando di chiederci il conto per averli ascoltati con pazienza senza cacciarli a pedate.

Ancora una volta a farne le spese sono gli autori, anche se le loro opere, in qualche modo, sopravviveranno alle mancate riedizioni così come alla mancata seria promozione e alla mancata seria didattica. I loro lavori rimarranno sepolti sotto la cenere per quelle generazioni future che, prima o poi, ritroveranno l’umiltà e il desiderio di accostarsi ad essi per apprenderne gli insegnamenti piuttosto che per commentarli sbrigativamente dal basso di una incompetenza da opinionisti. Tuttavia non possiamo non domandarci come mai nonostante le spese certamente preventivate per le effimere «Celebrazioni», nessuno in Italia abbia pensato di ripubblicare gli scritti già tradotti di Wagner quali Opera e dramma o L’opera d’arte dell’avvenire. Come mai nessuno ha pensato di ripubblicare o meglio pubblicare – essendosi interrotta prematuramente – la collana delle “Disposizioni sceniche” verdiane (e non solo verdiane) avviata dall’ormai scomparso editore Ricordi?
Chi, invece, subisce passivamente e irrimediabilmente questa situazione è il pubblico degli ignari, dei giovani soprattutto. Essi neppure immaginano che in queste opere è racchiuso quel «patrimonio di insegnamenti impliciti» che potrebbe costituire il fondamento scientifico da cui ripartire per far rinascere l’interrotta tradizione umanistica, vera ricchezza del nostro paese; una ricchezza che non va semplicemente commemorata come sacra reliquia da offrire alla curiosità dei turisti, ma studiata e insegnata come un’«insieme di competenze» da apprendere per poter ricominciare a fare arte al medesimo livello degli autori che ne sono stati protagonisti, considerati troppo spesso «superati», per non dire «irraggiungibili» proprio come la volpe dice dell’uva “acerba” a cui non arriva.

Non hanno di certo favorito un cambio di prospettiva quelle iniziative che, in occasione del bicentenario, si sono proposte di far conoscere questi due autori al pubblico più vasto sfruttando e alimentando un pretestuoso conflitto personale e ideologico tra di essi. A questo proposito non possiamo fare a meno di notare l’analogia di trattamento con altri «casi», non meno famosi, entrati nel medesimo modo a far parte dei dibattiti massmediologici di attualità, e quindi sofferenti degli stessi luoghi comuni alimentati da quelli. Si potrebbe infatti parlare del «caso» Ugo Foscolo / Vincenzo Monti allo stesso modo del «caso» Verdi / Wagner, e di come anche i primi siano stati giudicati dalla critica, dalla scuola e dal pubblico per il loro maggiore o minore «impegno civile», essendo facilmente «interpretabili», in questo senso, l’uno come «grande rivoluzionario» l’altro come «pericoloso conservatore».

Di questi tempi, in cui la produzione «contemporanea» per uscire dal ghetto dell’autocelebrazione, della trasgressione fine a se stessa e della sperimentazione di nuovi incomprensibili e tautologici linguaggi, usa la categoria dell’«impegno civile» per giustificare operazioni altrimenti ingiustificabili; una situazine in cui lo sperpero del denaro pubblico in iniziative che non asciano alcuna traccia nei luoghi dove si celebrano, maschera bene l’assistenzialismo a una casta di pseudo intellettuali e pseudo artisti che si convince di aiutare e assistere i più deboli nascondendo di essere loro i deboli inetti assistiti e aiutati dalla politica che li protegge, è chiaro che l’unica chiave in cui potevano venir considerati, o peggio «riletti» anche questi due grandi autori è stata il loro presunto maggiore o minore «impegno civile».

La scuola per prima, proprio come i mass media, insegna a considerare gli autori più per ragioni ideologiche che per ragioni artistiche, in opposizione tra loro anziché in reciproca correlazione. Sicuramente ciò è dovuto alla semplice ragione che è molto più conveniente invocare facili opposizioni ideologiche che cimentarsi nello studio dei testi per ricercare affinità non immediatamente identificabili. Estendendo anche al teatro musicale quello che sottolineò il critico Asor Rosa in occasione della presentazione del suo studio enciclopedico della letteratura italiana, a suo avviso troppo condizionata dal «modello desanctisiano», si potrebbe dire che molti autori sono troppo spesso sottovalutati o sopravvalutati perché opposti «ideologicamente» anziché accostati «metodologicamente»:

“… mi sembra che il modello desanctisiano comporti la presenza di un certo tipo di ideologia. La letteratura è per lui una delle tante manifestazioni della vita morale che a sua volta è il riflesso della vita civile di un popolo. Ebbene questo modo di guardare ai testi non ne mette in evidenza tutta la potenziale ricchezza; i testi sono qualcosa di più complesso, di più contraddittorio. […] bisognerebbe occuparsi meno di ciò che questi autori hanno detto e più di come, con quali innovazioni di linguaggio hanno scritto. […] se si dedica maggiore attenzione al linguaggio ma soprattutto alla comparazione tra i linguaggi nelle diverse arti, per esempio quelle figurative quelle musicali, se insomma lasciamo perdere il falso principio della sostanziale autonomia del linguaggio letterario, scopriamo innovazioni geniali, di enorme portata. Un metodo che privilegia nel testo la presenza o la capacità di evocare una tensione civile lascia di fatto in ombra altre a mio avviso ben più importanti qualità degli autori. […] Nell’ottocento, il secolo in cui si è fatta l’Italia, abbiamo due poeti di grande levatura, Foscolo e Leopardi, non capiti e sacrificati sempre nel senso di cui abbiamo appena parlato, ovviamente. Anche Foscolo è infatti valorizzato come poeta civile. Ma proviamo invece a leggere I sepolcri dal punto di vista della modernità del linguaggio e della costruzione poetica. Ci accorgeremo di quanto Foscolo abbia contato nel fenomeno neoclassico non solo a livello italiano ma europeo. Per non parlare di Leopardi, che è un altro grandissimo poeta dell’ottocento per intuizione moderna dei caratteri della poesia, ed è invece stato trattato quasi esclusivamente per il contenuto dei suoi versi, il “pessimismo leopardiano” utile, secondo De Santis, a suscitare nel lettore e nel critico sentimenti etici in contrasto con quelli dell’autore, o da classificare addirittura, secondo Croce, come un caso patologico. Come ormai evidente, questo metodo di classificazione e di giudizio, oltre a risentire più di altri del tempo dei cambiamenti di prospettiva storico politica (oggi appare ridicolo vedere sette secoli di letteratura tutti tesi a costruire l’Italia) non prende in considerazione poeti e letterati per ciò che essi sono prima di ogni altra cosa: degli scrittori. Penso che persino Manzoni, se si riuscisse nell’impresa ciclopica di scollarlo dall’immagine di padre della patria e delle lettere nazionali moderne, potrebbe essere ristudiato e riservarci delle sorprese. Certo i desanctisiani e la scuola hanno fatto di tutto per rendere Manzoni quasi insopportabile. Hanno dato rilievo al fatto che avesse messo le sue capacità al servizio dell’ideologia, e nel suo nome hanno enfatizzato tutti gli autori che si sono impegnati a dare una coscienza unitaria all’Italia. E marginalizzato gli altri, quelli che come Leopardi non alzavano il tricolore. Ed ecco così pagine e pagine di storia della letteratura piene di omaggi agli spiriti civili che si sono caratterizzati per la loro italianità (Manzoni, Parini, Alfieri e lo stesso Foscolo letto è usato per il verso sbagliato) e la quasi esplicita condanna degli altri. Bisogna dire con franchezza che se il metro di giudizio fosse un altro, a Manzoni toccherebbe un drastico ridimensionamento. […] Il metodo desanctisiano era appunto un modo di guardare alla storia della nostra letteratura storicista e contenutista, ed è sopravvissuto alla morte di De Sanctis.”

Si potrebbe parlare a lungo della rilettura dei «classici» che è stata fatta – senza attendere centenari – dallo stesso Asor Rosa o da altri studiosi non condizionati ideologicamente – come ad esempio Italo Calvino, nel ruolo di saggista – che, proprio in un’epoca disattenta al proprio patrimonio umanistico, considerato superato dalla «contemporaneità» – hanno contribuito a rivalutare tanti grandi autori per le loro «qualità artistiche» piuttosto che per il loro reale o presunto «impegno civile».

Per il «caso Verdi/Wagner» vale quello che si può dire per tutti gli artisti per i quali si è tentata una strumentalizzazione o una riduzione del loro talento da parte di interpreti mediocri, sociologi, storici, politici spregiudicati disposti a «usarli» per i loro fini. Facendo leva sulla personalità, il nome, la vita leggendaria degli autori, essi sono riusciti spesso ad offuscare, agli occhi del pubblico, le qualità artistiche dei testi, e ad esaltare invece quegli aspetti della vita degli autori interpretabili politicamente, suscettibili cioè di diverse possibili strumentalizzazioni in tal senso, positive o negative.

E’ esattamente quello che si è cercato di fare per tanti altri autori, più di recente ad esempio per Roberto Rossellini, un autore considerato quasi come un partigiano piuttosto che come un grande narratore e soprattutto un grande umanista, motivo per cui si ricordano di quest’autore solo i film che possano essere utilizzati come rappresentativi di un atteggiamento politico nei confronti della liberazione del nostro paese dall’oppressione nazista, o, al contrario, quei film che possano gettare una luce ambigua, persino negativa, su di lui perché strumentalizzabili da opposte fazioni.

Allo stesso modo si potrebbe parlare del grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler, di come è stato trattato e giudicato alla fine dell’ultimo conflitto mondiale per essere rimasto in Germania e per aver diretto davanti al Reich.

Si potrebbe anche ricordare che persino il genio di Walt Disney è stato oscurato dai giudizi intorno alla sua personalità, considerata ambigua e pericolosa per le sue presunte posizioni politiche; proprio come Richard Wagner o il grande illustratore della sua opera, Franz Stassen, caduto in disgrazia per essere stato apprezzato dal regime nazista.

Anche il «caso Verdi/Wagner» va dunque considerato come tutti quei casi in cui autori molto noti sono stati giudicati per le loro idee politiche più che per le loro opere, per la loro vita più che per la loro ricerca artistica; autori vittime di pregiudizi ideologici che hanno pesato sulla valutazione delle qualità straordinarie dei loro capolavori. Questi «casi», che si riaprono in occasione di ricorrenze storiche, potrebbero costituire persino una buona occasione per ridiscutere, viceversa, proprio in ambito didattico, una concezione ideologica come quella desanctisiana, su cui Asor Rosa invitava a riflettere, che ha condizionato per tanto tempo lo studio della letteratura italiana. Si potrebbe, in questa prospettiva metodologica, ridiscutere i giudizi sul talento artistico di molti autori senza farsi condizionare dalle strumentalizzazioni ideologiche che ne sono state fatte sia in senso positivo che negativo, sia pure avvalorate, a volte, dalle posizioni politiche personali prese dagli stessi autori nella loro vita.

In questo caso specifico, anziché puntare il dito sulle scelte di vita di questi due autori, varrebbe la pena esplorare i testi per capire se e in quale misura essi siano condizionati dalle loro simpatie ideologiche; e anziché ricercare significati dietrologici, sarebbe più utile domandarsi per quali ragioni la complessità delle loro opere venga ridotta ai luoghi comuni proiettati su di esse tanto dal lettore ingenuo, quanto dall’insegnante impreparato quanto ancora dal critico militante.
Insomma, di fronte ad autori che pure, per la loro biografia, si prestano ad essere considerati esempi di impegno civile in senso positivo o negativo, sarebbe meglio chiedersi, a nostro avviso, se il criterio di «impegno civile» usato dai critici, dagli insegnanti o dai seplici lettori, sia adeguato per lo studio di testi artistici, le cui qualità non possono certo consistere nella loro maggiore o minore adattabilità a rappresentare le idee politiche degli autori o a sostenere quelle del critico/insegnante/fruitore che intenda piegarle ai propri scopi. in altre parole, mentre ci si interroga sulle idee politiche di Verdi o di Wagner, perché non ci si interroga sulla pertinenza di tali interrogativi per spiegare la complessità e universalità dei loro capolavori? Perché non ci si chiede, invece, se una critica, una didattica e una lettura ideologica basate sul concetto di autore/critico/lettore impegnato a fare propaganda politica sia o no adeguata a penetrare la profondità di un testo classico costruito per superare il proprio tempo e le barriere ideologiche entro cui il critico/insegnante/fruitore è invece imprigionato? Non è certo a Wagner o a Verdi che va imputata la lettura ideologica, in chiave risorgimentale o nazista, della loro opera, ma a quei critici/insegnanti/fruitori incompetenti che ricorrono all’ideologia – in mancanza di altri strumenti – per valutare i testi artistici.

I testi, per fortuna, sopravvivono alle ideologie e ai tentativi di storicizzarli, di considerarli cioè rappresentativi dei costumi e delle idee standardizzate del proprio tempo, al pari dei testi giornalistici o di qualunque altro documento possa essere conservato in quanto reperto rappresentativo di un fenomeno di pertinenza storica o antropologica.

Non è forse proprio nel nostro paese che si utilizza tanto spesso il termine “autore” per denotare non le qualità di un artista ma quelle di chi si impegna a fare propaganda politica, di chi si dimostra apparentemente disinteressato a «vili successi commerciali», forse perché le sue imprese sono finanziate a priori, indipendentemente dai risultati? Il luogo comune costituito dall’opposizione tra «commerciale» e «impegnato», che ancora si adotta implicitamente nei discorsi sul cinema, sulla letteratura e sul teatro, costituisce un presupposto implicito che rivela indirettamente quanto la critica, come la didattica, siano ancora impregnate di ideologia, e quanto gli studi umanistici abbiano perso di scientificità a favore di una opportunistica strumentalizzazione socio-politica.

Sono infatti i concetti (non i nomi) di «arte» e di «scienza» ad essere usciti di scena per dar spazio a quelli di economia e di politica; si parla infatti ormai abitualmente di “economia della cultura” e di “politiche culturali” così come si creano cattedre di “scienze di ogni cosa”; e l’appellativo di “artista” viene ormai attribuito a chiunque pratichi una qualche forma di espressione o, come si dice oggi, di “arte”. In base a tali criteri economici e politici il successo di un testo e l’autorevolezza di un autore vengono giudicati da un lato secondo il numero di copie vendute e da un altro secondo le simpatie politiche suscitate o invocate magari attraverso l’accorta scelta di un tema di attualità a cui riferirsi simbolicamente.

Nella scuola che ancora adotta la concezione desanctisiana e che insegna che «quello che viene dopo è meglio», mentre «quello che viene prima è superato» (tanto varrebbe studiare solo libri sulla contemporaneità), si finisce per far odiare i classici, come lo stesso Asor Rosa o Italo Calvino ci ricordano (ma basterebbe chiedere ai nostri figli o ricercare tra i nostri ricordi); a questo punto ci si potrebbe augurare che certi classici escano dai programmi scolastici piuttosto che risiedervi per essere trasformati in incubi, come oggetti da studiare «per dovere», destinati a innescare quella terribile opposizione di cui sopra: infatti i testi «impegnati» si fruiscono e si studiano per «dovere» – come una dottrina o una purga – mentre quelli «commerciali» per piacere, o meglio per «intrattenimento».

Adottando queste categorie è difficile immaginare che le opere di Verdi e di Wagner possano essere oggetto di uno studio serio e al contempo piacevoleUno studio che faccia scoprire ai giovani lettori quanto i testi di questi due autori siano più complessi e affascinanti di qualunque succedaneo che ne imiti oggi inconsapevolmente le straordinarie soluzioni. D’altro canto, se i ragazzi amano Il Signore degli anelli perché non dovrebbero amare L’anello del Nibelungo, di fronte al quale il primo altro non è che la versione banale di una grande saga? Perché un giovane che piange davanti a un’ingenua commedia romantica contemporanea «di culto» non dovrebbe commuoversi con un melo ben più complesso e appassionante come Traviata? Il problema sta a nostro avviso nel «come» ci si avvicina a questi capolavori; e non è da sottovalutare il «come» li si mette in scena, spesso sottraendo, già nell’interpretazione registica, molto della loro complessità a favore di riduttive «attualizzazioni» in chiave ideologica.

I testi di Wagner e di Verdi postulano un destinatario in grado di destreggiarsi tra più piani espressivi per poter cogliere il diverso apporto di essi alla complessità narrativa; un destinatario che non c’è più ma che si può ancora formare; un destinatario che trarrà da questa formazione la capacità non solo di comprendere e apprezzare l’opera di questi e di altri grandi autori, ma anche di poter lui stesso sperimentare in prima persona una forma di narrazione propriamente «poli-espressiva».

Ma per far questo non basta consultare diversi studi letterari, musicali, e teatrali in rapporto a un medesimo capolavoro di uno di questi due autori. I tanti saggi che vengono scritti ad esempio per i programmi di sala delle messe in scena non sono in genere articolati «scena per scena», non ricercano nella totalità del testo «gli elementi e le regole» ricorrenti che ne governano il funzionamento, ma sono condotti su un solo piano espressivo e con competenze settoriali; di conseguenza possono cogliere un solo livello del racconto, e tuttavia spesso finiscono per usarlo «riduzionisticamente» per interpretare l’intera costruzione narrativa, trascurando il valore degli altri piani espressivi in un’opera che viceversa funziona solo grazie all’interazione «complementare» di essi.

Per studiare queste opere occorre da un lato una competenza propriamente narrativa – per riordinare sul piano narrativo tutte le informazioni veicolate dai diversi piani espressivi – e da un altro una competenza poli-espressiva – per identificare in ogni piano espressivo i tratti pertinenti per ricavare le informazioni che l’autore ha affidato ad essi in rapporto al piano narrativo comune.

D’altro canto anche la scuola – come la televisione o l’Internet di Wikipedia – propone all’utente sprovveduto paginette divulgative, schede riassuntive sugli autori che contribuiscono a creare e a diffondere stereotipi su di essi. La divulgazione pedagogica – al di là delle intenzioni, a volte sincere – anziché stimolare interrogativi crea false sicurezze e smercia facili e false conoscenze a buon mercato, luoghi comuni di cui gli stessi lettori diventano portatori impliciti e inconsapevoli. La divulgazione non aiuta la comprensione dell’opera di questi autori ma anzi la allontana, perché con l’illusione della conoscenza spegne la curiosità e il dubbio. Meglio la sana consapevolezza della propria ignoranza, che spinge almeno ad avvicinarsi ai testi artistici con la necessaria umiltà per poter capire cosa occorre imparare, di quali strumenti occorre dotarsi per poter arrivare a comprenderli e ad apprezzarli a pieno.

Premesso tutto questo, il bicentenario Verdi-Wagner avrebbe potuto essere una grande occasione per studiare quali aspetti metodologici abbiano in comune le ricerche ei progetti di questi due autori, quale cammino parallelo abbiano percorso nella stessa direzione, quali medesime questioni hanno dovuto affrontare e quali soluzioni originali abbiano elaborato intorno ad esse.

Il bicentenario poteva essere l’occasione giusta per indagare e far conoscere le affinità di pensiero tra due grandi artisti che, come tutti i grandi autori eredi di una tradizione umanistica importante, hanno raccolto quegli interrogativi che prima di loro già altri grandi umanisti si erano posti, e li hanno rilanciati alle generazioni successive caricandoli di tutte le loro personali riflessioni; i loro capolavori, confrontati a distanza di tempo e con un metro di paragone non ideologico ma metodologico, ci permettono di vedere quanto questi due autori abbiano in comune piuttosto che in opposizione tra loro. In questa prospettiva il bicentenario poteva essere un’occasione per riconsiderare gli apporti reali di questi due autori all’evoluzione del teatro musicale; un’occasione per valutare le loro idee «rivoluzionarie» riguardo al modo di raccontare e non alle loro scelte di vita. Ma anche un’occasione per aiutare i giovani che si accostano ora ai lavori questi due grandi maestri, affinché non commettano l’errore di giudicarli superficialmente, sbrigativamente e sommariamente, per meriti o demeriti che non dipendono dalla qualità delle loro opere.

Su questo piano squisitamente metodologico si possono scoprire molte delle qualità che accomunano questi due grandi autori. Due autori che hanno condiviso un cammino parallelo verso una concezione propriamente «multimediale» del progetto narrativo e della sua messa in scena. Un cammino che vorremmo far divenire oggetto di una proposta metodologica per la scuola e per la formazione a tutti i livelli.

– A proposito dei Centenari: il bicentenario Verdi Wagner; una delle tante occasioni sprecate

In genere un manuale di studio viene realizzato da uno o più docenti universitari come sussidio per gli utenti del proprio corso di studi, e i docenti, essendo già pagati per insegnare in aula, sono disposti in genere a soprassedere ad un compenso e persino ai diritti d’autore, accontentandosi di inserire la pubblicazione nel proprio curriculum. Inoltre la distribuzione dei manuali agli studenti delle scuole superiori oltre che dell’Univerità (fino ad oggi su consiglio delle stesse scuole) ripaga ampiamente gli editori e consente loro ampi margini di guadagno dopo aver sostenuto le spese per l’edizione e la distribuzione (spesso peraltro già coperte da finanziamenti pubblici per il progetto editoriale).
Il paradosso si raggiunge quando un insegnante che prepara dispense e lezioni all’interno dell’attività per cui è già pagato dall’Istituzione in cui insegna, trasforma le proprie lezioni in aula (o replicate davanti a un computer) e le proprie slide, arricchite con documenti di archivio, in lezioni audio video o multimediali podcast che fornisce a un’utenza più vasta come se fossero una novità e un salto verso l’istruzione e-learning nel mondo digitale. Nondimeno sono da segnalare le piattaforme elearning improvvisate da editori che, pur di mantenere il controllo della produzione dei libri di testo, offrono ora agli insegnati «nuovi strumenti» per fare didattica digitale: materiali di ricerca online, test interattivi per far esercitare studenti e verificarne l’apprendimento, che in ogni caso continua ad avvenire tramite i libri cartacei ma «arricchit»i di «bonus» multimediali online e di equivalenti digitali del libro da fruire su computer. In questi casi è evidente che si tratta del tentativo di «adattamento» dell’insegnante e dell’editore tradizionale a un mondo in cui non sanno come muoversi ma in cui tentano di sopravvivere, cambiando nomi e tecnologia, e sperando così di «riciclare» le cose che già fanno senza che i loro vecchi o nuovi utenti se ne accorgano.
Cominciano però ad essere molte le alternative al libro di testo, all’insegnante stesso, e ancor di più all’editore che vuole frapporsi tra lo studioso e/o l’insegnante e gli studenti offrendo pachetti formativi e didattici che gli studenti e le loro famiglie fino ad oggi sono stati costretti a comperare a caro prezzo. Tuttavia non sempre le alternative sono meglio delle soluzioni ormai consolidate. Senza dubbio il nuovo «mercato educational», che dovrebbe per definizione essere «non-profit», offre alcuni vantaggi, come la possibilità di utilizzare la rete, la banda larga e i formati digitali – tra cui epub e pdf – per distribuire contenuti digitali senza intermediari, riducendo i costi eccessivi di edizione e di distribuzione. Gli autori potrebbero sviluppare loro stessi edizioni perfettamente impaginate, reticolari, interattive, ipertestuali, e potrebbero pubblicarle online offrendole direttamente ai docenti e agli studenti a cui si rivolgono. E i fruitori di questi contenuti digitali potrebbero servirsi di un unico dispositivo, un semplice tablet o laptop, per apprendere, esercitarsi, condividere. Ma tra le possibilità e le eventualità che esse si attuino continua ad esserci di mezzo il mare degli interessi di chi specula sull’arretrateza culturale ed educativa del nostro Paese.
Sarebbe già un grande passo avanti se gli editori fossero caldamente invitati – dalle Scuole e magari dal Ministero della Pubblica Istruzione – a riconsiderare e convertire la loro offerta dal formato cartaceo a quello digitale, eliminando così le spese di stampa e di distribuzione materiale. In tal modo si dovrebbe avere una riduzione sostanziosa dei costi per le famiglie rispetto all’equivalente cartaceo. Ma temiamo che il guadagno degli editori si concentri soprattutto su questa parte del processo produttivo; e inoltre gli autori potrebbero giustamente avanzare maggiori richieste di diritti dal momento che il servizio offerto dai loro editori si ridurrebbe a quello di promuovere i nuovi titoli all’interno di collane già affermate. Un ulteriore passo, più azzardato ma oggi già possibile, sarebbe quello di inserire le offerte degli editori in un «servizio di fruizione illimitata» per l’educational, equivalente a quello commerciale di «Amazon unlimited» per i libri, o di Netflix Streaming per il cinema, o di Spotify e Google Streaming per la musica. Anziché appoggiarsi a servizi esistenti (che richiederebbero percentuali da parte dei grandi distributori digitali) si potrebbe persino creare un nuovo servizio pubblico di questo tipo, offrendo incentivi agli editori per rendere tutti i loro manuali fruibili online e dando così agli utenti finali – insegnanti e studenti – la possibilità di confrontare e scegliere le offerte formative e didattiche, e magari anche di utilizzare più manuali in una sorta di «iper-manuale composito» che integri diversi contentuti ricavati dalle diverse proposte editoriali.
Tutte queste possibilità offerte dall’educational online, che via via saranno rese disponibili da leggi europee che ne consentiranno la libera attuazione, non eliminano, ma anzi pongono con più forza, il problema della «qualità» dell’offerta. L’alternativa al manuale tradizionale analogico chiuso, settoriale e irrelato, e all’insegnante unico impreparato e iperspecializzato, non può essere il «libro fatto in casa o in classe» da autori ancor più impreparati, iperspecializzati e impossibilitati a condurre quelle ricerche che in genere precedono e supportano l’uscita di un serio manuale di studio. I nuovi strumenti di studio non devono essere «versioni elettroniche» dei libri di testo esistenti, con gli stessi limiti ben mascherati da bonus multimediali, ma non devono neppure essere alternative peggiori, magari basate sulla condivisione di esperienze tra insegnanti e su ricerche di studenti piuttosto che su una lunga tradizione di ricerche e studi da parte di equipe di scienziati esperti della materia e dei suoi correlati interdisciplinari. Non devono cioè essere dispense digitali elaborate in fretta attingendo da fonti di seconda mano, e compilando testi già essi divulgativi disponibili online.
Nel fare educational online noi vediamo la possibilità di lasciarci alle spalle non solo l’editoria tradizionale analogica ma anche quell’editoria digitale nata male per colpa di editori avidi, interessati solo a riciclare il proprio magazzino; e vediamo anche la possibilità di superare non solo la formazione e didattica in aula con un insegnante che si è specializzato su un libro e su un autore e costringe i propri studenti a ripetere le sue vane ricerche pubblicate per fare curriculum, ma anche quella finta formazione e didattica online che offre – proprio grazie a un uso spregiudiacto del corso online – ulteriori facilitazioni per chi voglia acquisire un titolo piuttosto che competenze.
La Scuola di Base ha ancora bisogno di insegnanti che stabiliscano con i propri allievi un rapporto di fiducia, quasi familiare, per poter insegnare loro «come» affrontare lo studio: non come una sorta di punizione ma come un piacere; il piacere di imparare a ricavare ed elaborare informazioni raccogliendo stimoli e soddisfacendo quella curiosità che altrimenti i ragazzi potrebbero perdere, anziché incrementare, proprio grazie alla scuola. Perciò occorrono insegnanti ancor più preparati, che siano supportati da nuovi strumenti per fare meglio quello che già in parte fanno.
La Scuola Superiore e l’Università hanno invece bisogno di sostituire i limiti dell’insegnante che conosce poco e male persino la propria materia (e tutto quello che studiosi nel mondo e nel tempo hanno elaborato su di essa), con una «comunità scientifica di studiosi virtualmente a disposizone dello studente» e con una «comuntà di artisti – anch’essi virtuali – disposti a prenderlo a bottega» per insegnargli un antico mestiere; per questo occorre non «un» insegnante e non «un» libro ma una molteplicità di maestri e una molteplicità di fonti attendibili da cui apprendere «competenze» esplorandone le «correlazioni».

Tutto questo si complica ulteriormente quando si parla di strumenti di studio in ambito umanistico.
Mentre il mondo accademico ormai umanista solo di nome sceglie di trattare i testi (per incompetenza o per ideologia) dai soli punti di vista storico e sociologico, il nsotro Istituto continua a trattare i testi dal punto di vista compositivo e interdisciplinare.
Così mentre negli ambiti accademici gli studenti imparano solo a ricostruire la genesi di un’opera o si domandano cosa pensano o cosa pensavano gli spettatori e i fruitori dei testi, l’istituto si occupa invece dei meccanismi di funzionamento dei testi, dei principi di narrazione e composizione insiti in essi, e di cosa pensano gli autori che li hanno creati. E mentre storici e sociologi si interrogano su cosa c’è «dietro» e «intorno» ai testi, noi ci preoccupiamo di scoprire e di insegnare cosa c’è «dentro» i testi, di cosa sono fatti.

L’istituto si occupa infatti di trasformare archivi inerti di grandi autori, normalmente di interesse solo per studiosi del settore e per studenti che hanno bisogno di avvalorare le loro tesi con qualche citazione, l’istituto invece trasforma tali archivi da oggetti di studio in strumenti di studio delle competenze con cui gli autori dei documenti in essi raccolti hanno creato i loro capolavori. In questa prospettiva, riorganizzando reticolarmente tali risorse, e scoprendo legami intra- e inter- testuali in base a principi di composizione inerenti ad essi, creiamo manuali di studio innovativi che poggiano su un giacimento di risorse a cui applicare e da cui ricavare gli strumenti che via via si apprendono. Navigando tra i testi e apprendendo quali principi consentono di correlarli tra loro, da un lato aiutiamo gli utenti a scoprire nuovi punti di vista per osservare gli oggetti che già si conoscono, da un altro li aiutiamoa scoprire nuovi oggetti da osservare e confrontare con i punti di vista scoperti e acquisiti.

In altre parole noi creiamo ambienti di studio «reticolari» in cui è possibile ampliare insieme le proprie «competenze» e «conoscenze». Manuali e antologie, strumenti e oggetti di studio, vengono correlati da molteplici prospettive in un sistema integrato che si espande via via che l’utente cresce. Questa particolarità consente di «saltare» ciò che si conosce già, di decidere da quali presupposti partire e dove fermarsi, cioè quale livello di pertinenza assumere. Mentre un oggetto di studio concepito come un data-base di risorse da esplorare va bene – solo – a chi sa già cosa cercare, un sistema di studio reticolare va meglio per chi non sa già cosa cercare e vuole scoprire nuovi interessi via via che esplora correlazioni tra testi di uno stimolante universo conoscitivo. Per chi non ama già la lirica o per chi non presume di conoscere già tutto o di possedere già una quantità di strumenti tali da consentirgli di cogliere tutta la complessità di un’opera d’arte, questo tipo di strumenti offre una nuova prospettiva formativa e didattica. Nessuno mai da solo potrebbe trovare tante risorse, avere il tempo e il denaro per viaggiare e ricercare e studiare e seguire tutte le correlazioni che i nostri studiosi, dotati di adeguati strumenti metodologici e tecnologici, ricercano, scoprono e raccontano.

Per ognuno di questi titoli l’istituto investe in formazione dei propri studiosi, ricerca di risorse rare, digitalizzazione, editing, restauro digitale, memorizzazione, classificazione, conversione, studio comparato delle risorse, progettazione, narrazione, impaginazione. E oltre a questo l’ Istituto investe nell’acquisizione e nello studio di nuove risorse tecnologiche per creare, conservare, mettere on-line tali risorse editoriali e renderle disponibili ai propri studiosi.

Chiunque voglia collaborare con l’istituto deve possedere una buona formazione umanistica di base, anche se settoriale ma multi disciplinare, e soprattutto una conoscenza di testi classici. Deve mostrare interesse ad acquisire competenze metodologiche scientifiche, cognitive, antropologiche, semiologiche, epistemologiche, logiche. Deve possedere la curiosità e l’umiltà necessari per continuare ad apprendere; deve investire diversi anni per incrementare la propria formazione seguto dall’istituto che a sua volta investe su di lui seguendolo personalmente. Deve collaborare allo sviluppo di sussidi seguendo e supportando l’attività degli attuali autori studiosi dell’Istituto.

Chiunque voglia sostenere l’istituto può dare contributi alla realizzazione di nuovi titoli e avere in cambio la possibilità di fruire di titoli sviluppati e di poter seguire come fruitore le iniziative dell’Istituto. Soprattutto scuole teatri e singoli educatori possono ricevere i nostri servizi didattici informativi e il diritto d’uso dei nostri sussidi offrendo un contributo alle spese di produzione dei nuovi Sistemi che in tal modo si aggiungeranno a quelli che potranno fruire.

– A proposito dei nuovi manuali di studio nell’era digitale

Oggetto di interesse dell’Istituto è una particolare metodologia di approccio ai problemi comunicativi, progettuali e cognitivi connessi alla composizione, allo studio e alla didattica dei testi artistici.
Tale impostazione e metodologia tende a far individuare e utilizzare progettualmente:
– distinzioni tra ambiti che in genere vengono associati impropriamente,
– o, all’opposto, relazioni e interazioni tra ambiti che in genere vengono considerati distanti o addirittura irrelati.
Particolare attenzione è rivolta ai rapporti tra: la ricerca scientifica e la ricerca artistica, l’indagine e la progettazione, l’universo comunicativo e l’universo non comunicativo, le forme espressive e le forme narrative nella comunicazione artistica.
Le attività di ricerca, di formazione e di progettazione che l’Istituto svolge, hanno come riferimento i meccanismi – sovente impliciti e fin troppo spesso inconsapevoli – di costruzione, funzionamento e classificazione dei prodotti culturali e artistici. Questa impostazione porta infatti a riconoscere le costanti e le variabili dell’attività ideativa e dell’attività analitica; costanti e variabili che attraversano e in qualche modo prescindono da: i differenti contesti in cui i prodotti sono fruiti, i differenti usi/significati che storicamente e culturalmente sono loro assegnati, i materiali di cui sono fatti, gli strumenti tecnici con cui sono realizzati e, nel caso dei prodotti comunicativi, i valori ideologici che possono essere loro attribuiti.
Tutte le attività dell’Istituto Metacultura, sia che riguardino lo studio, la progettazione o la didattica, si svolgono su due livelli operativi, distinti fra loro eppure strettamente connessi e interagenti.
Il piano analitico e il piano progettuale.
Il primo consiste nell’esaminare e rappresentare il sistema di funzionamento di prodotti presi in considerazione, siano essi adibiti a funzioni comunicative o, invece, a funzioni non comunicative.
A questo livello si mette in atto un procedimento di «scomposizione» che, muovendo dal complesso al semplice tende a ricavare elementi e regole (criteri di indagine, meccanismi di funzionamento, parametri strutturali e funzionali) e modelli risultanti dalla loro correlazione.
Tale procedimento permette di rendere esplicite le soluzioni compositive inerenti ai prodotti, le quali consentono ai prodotti stessi di assolvere le funzioni per cui sono usati («per servire a»: funzioni extracomunicative; «per significare»: funzioni comunicative).
In questa prospettiva gli oggetti vengono considerati come combinazioni di elementi e come attualizzazioni di possibilità offerte dal controllo e dall’applicazione dei principi compositivi che via via si individuano nell’analisi degli oggetti stessi.
Ciò rende anche possibile confrontare e valutare, in base a criteri espliciti oggettivati e definiti, le scelte compiute e le alternative scartate (consapevolmente o meno) dagli autori, nonché le potenzialità (di lettura o di uso) lasciate aperte e pertinentizzate dai fruitori; possono così essere compresi i diversi criteri che governano tanto l’attività di progettazione quanto quella di interpretazione, di classificazione e uso degli stessi oggetti.
In questo modo non si indaga solo sui prodotti, ma, attraverso di essi, si indaga anche sui modi di indagare, classificare, confrontare, comporre, comunicare.
Questa impostazione potrebbe venire pertanto definita anche «strumentale», in un duplice senso:
– sia perché si interessa agli strumenti metodologici della conoscenza, della progettazione e della composizione,
– sia perché, in una prima fase, considera «strumentalmente» gli oggetti indagati, per ricavare principi e procedimenti la cui validità va ben al di là del singolo oggetto preso in esame. E’ in questo senso che gli oggetti vengono considerati come attualizzazioni di un sistema di regole soggiacente.
Va però anche detto, complementarmente, che il considerare oggetti particolari e concreti consente non soltanto di affinare strumenti analitici e progettuali; consente anche di cogliere e apprezzare le qualità dei singoli progetti, proprio in quanto si acquisiscono via via strumenti adeguati per distinguere e valutare la loro complessità e raffinatezza (altrimenti neppure rilevabile in un contesto culturale ormai così condizionato dai problemi della quantità e della novità, al punto da sollecitare troppo spesso letture superficiali e omologazioni grossolane dei prodotti).
In questo modo, inoltre, è possibile far emergere le relazioni strutturali tra i prodotti, nonché le eredità di soluzioni e funzioni che essi possono sviluppare oppure semplicemente adottare.
L’individuazione dei meccanismi di funzionamento di un prodotto consente infatti di scoprire le relazioni di affinità che lo legano ad altri in base alla logica compositiva, ai principi di composizione degli elementi e alle funzioni assegnabili. Legami che possono essere individuati sia lungo l’asse diacronico della storia di tradizioni ed eredità culturali, sia lungo l’asse sincronico e pancronico della
forma compositiva dei prodotti stessi tra loro contemporanei o distanti nel tempo ma correlati logicamente attraverso di essa.
Va sottolineato che l’Istituto non coltiva un approccio storico-filologico nell’analisi dei prodotti (per esempio interessandosi ai dati biografici degli autori, alle loro «intenzioni» e ai contesti filosofico-ideologici) e neppure un approccio «settoriale» (per esempio assumendo distinzioni di «generi», contenuti, usi). L’attenzione prevalente va al «come è fatto» e al «come funziona» il prodotto, all’adeguatezza delle soluzioni rispetto alle funzioni che deve svolgere.
Il piano progettuale
Il secondo livello è quello più propriamente «progettuale e produttivo». Va anzitutto precisato che le cose dette per il livello analitico valgono anche per questo secondo livello, in quanto l’attività progettuale (anche e a maggiore ragione quella artistica) si fonda su un processo di indagine e di ricerca, pena la confusione, lo spontaneismo, la riproposizione meccanica e stereotipata di soluzioni già esistenti. Inoltre l’attività progettuale non può procedere in assenza di riferimenti: essi però possono essere adottati inconsapevolmente o sviluppati consapevolmente e persino esplicitamente
(in tal caso aggiungendo un livello metadiscorsivo sui rapporti tra il testo e i testi correlati ad esso). L’analisi e l’individuazione dei meccanismi di funzionamento di prodotti preesistenti è, in questa prospettiva, il fondamento per studiare meccanismi e soluzioni nuove.
Attraverso l’analisi di prodotti esistenti si possono individuare, confrontare e classificare elementi e regole di composizione.
Tali elementi e regole permettono a loro volta di elaborare modelli compositivi, che contengono, senza
esaurirsi in esse, le possibilità compositive osservate. Questi modelli, oltre a costituire strumenti per l’attività di analisi e di comparazione, svolgono un ruolo importante anche nell’attività progettuale. Essi infatti consentono:
1) di riconoscere e confrontare le affinità e le diversità non superficialmente rilevabili nei prodotti considerati,
2) di operare trasformazioni sui prodotti agendo in modo sistematico sulla variazione di alcuni elementi, fino a realizzare prodotti diversi da quelli d’origine,
3) di ipotizzare nuove combinazioni degli stessi elementi, che possano configurare progetti di nuovi prodotti.
L’attività progettuale può procedere prendendo in considerazione sia il livello delle «soluzioni» («come è fatto» il prodotto), sia quello delle «funzioni» («a cosa serve / che significa» il prodotto). Se gli elementi considerati sono delle «soluzioni», fissandone alcune come costanti e variandone altre si possono ricercare e scoprire nuove possibilità funzionali, nuove possibilità d’uso. Se sono invece delle «funzioni», sempre fissandone alcune come costanti e variandone altre, si possono ricercare e scoprire nuove soluzioni adeguate a svolgerle.

– A proposito della nostra ricerca metodologica

– Ricercare la Genesi o Studiare la Formula di un capolavoraro artistico? A proposito della storia di Romeo e Giulietta

Click Here