Le Nuove Botteghe Umanistiche
Gli Ambienti di Studio, Progettazione e Sviluppo, dove trasformiamo «oggetti» inerti e irrelati in «strumenti» di metodo per studiare, con la scienza, le soluzioni e le regole della narrazione artistica, per indagare l’architettura di capolavori immortali, per esplorare la rete delle correlazioni tra le innumerevoli varianti di modelli archetipici, e per scoprire i meccanismi narrativi e compositivi condivisi tra opere distanti tra loro nello spazio, nel tempo, e nelle forme espressive.
I Progetti della Bottega RaccontoInCanto
I Progetti della Bottega RaccontoInCanto
Studiare il Metodo: I Laboratori dedicati alla riflessione progettuale sulle regole e sulle soluzioni della narrazione artistica in forma teatrale musicale
Anche e soprattuto in questa Bottega ci è parso necessario dedicare almeno tre Laboratori allo studio dei presupposti metodologici con cui gli autori, da noi adottati come maestri di teatro musicale, hanno trattato la materia narrativa ed espressiva progettando la loro opera.
Questa è infatti la Bottega in cui prendiamo in esame le forme della narrazione multiespressiva, e in particolare il ruolo che assume la musica in un tipo di narrazione che sfrutta la complementarità delle forme espressive per realizzare progetti narrativi artistici estremamente complessi quali sono le opere liriche. Dunque questo è il luogo giusto per spingere la nostra riflessione metodologica sulla narrazione oltre i confini delle discipline artistiche e dei rapporti già indagati tra arte e scienza.
Qui intendiamo studiare ciò che solo alcuni grandi autori del teatro musicale sono riusciti a rendere esplicito nel loro modo di lavorare, di intendere e trattare la composizione e la narrazione nella costruzione delle loro opere. Grazie alle loro riflessioni esterne al racconto, e al loro modo di moltiplicare la macchina narrativa all’interno del racconto stesso per renderne espliciti i meccanismi, essi ci hanno aiutato a capire come abbiano potuto integrare e far interagire i diversi piani narrativi ed espressivi in modi che nessun altro autore, nel suo campo artistico, è riuscito a raggiungere.
Molti sono gli autori di cui ci occupiamo in questa Bottega, ma pochi sono coloro che ci hanno lasciato, insieme alle loro opere, anche progetti, studi, riflessioni, interviste e lezioni, e soprattutto, nelle opere stesse, una lezione esplicita di metodo, utile non solo per capire le loro opere ma anche quelle dei loro maestri eredi e interlocutori a distanza.
Nel secolo scorso, con l’affermarsi del cinema e nonostante il declino del teatro musicale, la ricerca metodologica non si è fermata, ma anzi ha avuto nuove attenzioni da parte di alcuni autori che, nel porsi le medesime domande dei maestri del teatro musicale (come narrare con più forme espressive evitando la loro dipendenza e ridondanza) sono giunti alle medesime conclusioni, e hanno trovato, anche nel cinema, soluzioni vicine a quelle già raggiunte dai maestri del teatro musicale. Per questo motivo la nostra attenzione alla narrazione artistica in campo cinematografico ha privilegiato quegli autori che hanno fatto di questo problema una ragione di vita e di ricerca, un tratto stilistico della loro poetica e un criterio di scelta dei soggetti da trattare.
Tra questi, gli autori del cinema delle origini ci hanno mostrato come fosse possibile fare arte anche con il cinema grazie a una adeguata preparazione ottenuta attraverso allo studio dei risultati e dei procedimenti dei grandi artisti delle arti classiche, e in particolare di coloro che erano giunti alla loro integrazione multiespressiva.
Senza i capolavori dell’opera e dell’operetta non avremmo il «musical cinematografico» che Lubitsch ha inventato non solo trasformando il teatro musicale in cinema musicale, ma anche ispirandosi ai capolavori dei suoi maestri. Murnau concepì i propri capolavori come opere per musica e immagini in movimento; Chaplin e Disney arrivarono a concepire le proprie opere come vere e proprie partiture per musica, immagini, ed eventualmente letteratura (con un impiego parsimonioso e accorto della parola); la generazione dei Donen, Kelly, Minnelli, fece del racconto musicale una vera ossessione, al punto di cercare di ridurre al minimo o di integrare meglio l’apporto dei dialoghi, proprio come avevano fatto i maestri del teatro musicale; i film musicali di Demy e poi il film di Coppola One from the heart suscitarono grande interesse nel cinema per il tentativo di integrare i dialoghi nell’opera come parte di essa, anziché come interruzioni o deviazioni nel flusso narrativo musicale. Infine, un film come The Artist, in tempi più recenti, ha fatto rinascere l’interesse non solo per il muto come forma espressiva autonoma, ma anche per il muto musicale come soluzione multiespressiva proprio come era stato pensato dai suoi inventori. Il finale di The Artist in questo senso è esplicativo: come si affronta l’arrivo del sonoro dopo l’età d’oro del «silent movie»? Facendo non «film parlati», ma «film musicali»!
Abbiamo già sottolineato in diverse occasioni come non sia stato percepito e tanto meno studiato l’apporto fondamentale della musica in film di artisti come Hitchcock e Truffaut, che pure hanno lavorato con altri artisti del calibro di Bernard Hermann o Georges Delerue. Allo stesso modo, di fronte al successo di capolavori del cinema di animazione quali l’intramontabile Snow White and the Seven Dwarfs di Walt Disney, non è stata data la giusta importanza alla colonna sonora, una vera e propria partitura composta appositamente per il film, che non semplicemente lo accompagna, ma lo racconta. Ugualmente per un capolavoro come City Lights di Chaplin non si è data abbastanza rilevanza alla musica che lui stesso ha composto e che ha concepito – al pari di Disney – come un vero e proprio sistema di «leitmotiv». Noi che abbiamo studiato le partiture composte da Chaplin, da Herrmann, da Delerue e dai tanti altri grandi musicisti che hanno seguito i grandi narratori cinematografici nelle loro imprese – proprio come i grandi librettisti seguivano i grandi compositori del teatro musicale, e come i grandi disegnatori seguivano i più grandi scrittori per l’infanzia – abbiamo compreso il fondamentale apporto della musica alla narrazione, e vogliamo continuare a realizzare Sistemi di Studio che esplicitino, per ognuno di quei capolavori, il ruolo che la musica ha avuto per il loro successo.
Non a caso quei compositori di grandi colonne sonore sono gli allievi degli ultimi musicisti eredi della classicità. Tuttavia, se persino agli inesperti che vedano Fantasia o le Silly Symphonies potrebbe apparire finalmente chiaro quanta importanza Walt Disney desse alla musica per il funzionamento dei suoi capolavori, al punto di dotarsi di un’orchestra per registrare la musica nei suoi studi e di far lavorare i suoi disegnatori e scrittori in simbiosi con i compositori, non altrettanto evidente potrebbe apparire in quale misura uno degli ultimi maestri del cinema classico nel mondo contemporaneo, Steven Spielberg, abbia condiviso i suoi progetti narrativi multiespressivi con un musicista d’eccezione come John Williams; l’ultimo degli artisti che ha portato nel cinema gli insegnamenti di Wagner Verdi, Puccini riguardo alle possibilità di raccontare con la musica, ritagliando per essa il piano narrativo più difficile da rappresentare, quello dei sentimenti inespressi dell’animo umano.
Proprio da queste premesse siamo stati indotti a prendere in esame, insieme all’opera degli «eredi» – a noi più vicini – anche e anzitutto quella dei «maestri», quella di coloro che hanno inventato, teorizzato, e applicato sistematicamente una concezione dell’opera totale e una progettazione dell’opera come interazione perfetta tra i piani espressivi e narrativi.
Nei tre Laboratori di questa sezione della Bottega “RaccontoInCanto” assumiamo ad oggetto di studio la macchina progettuale di alcuni autori che non solo hanno studiato in modo particolarmente rigoroso, sistematico, ed esplicito la narrazione multiespressiva, ma ci hanno anche lasciato preziosi documenti per continuare la loro ricerca e da cui trarre contribuiti per un manuale di metodo.
Se Verdi ci ha lasciato, insieme alle partiture, ai libretti, e alle sue lettere, quelle preziose disposizioni sceniche con cui ci ha fatto capire come rispettare le sue opere e trarre da esse tutta la ricchezza che una pessima messa in scena potrebbe viceversa nascondere, se Wagner insieme alla sua opera monumentale e ai suoi progetti dettagliati ci ha lasciato una riflessione teorica di grande interesse sul piano metodologico (peraltro ancora parzialmente non ristampata e non tradotta), Jean-Pierre Ponnelle ci ha lasciato non solo la documentazione audiovisiva di rare e preziose messe in scena curate da lui non solo sulla scena ma anche dietro la macchina da presa, ma anche dei veri e propri esempi di «teatro-cinema», che costituiscono, per chiunque voglia studiare la narrazione multiespressiva, gli oggetti ideali su cui riflettere e da cui apprendere preziosi insegnamenti.
Comporre un’opera narrativa artistica in forma multiespressiva: la lezione metodologica di Richard Wagner
Ciò che conforta il nostro studio è la consapevolezza che nell’opera teatrale, musicale, e non di meno saggistica, di un autore «polivalente» come Richard Wagner ci siano tutte le domande e le risposte che un autore dovrebbe considerare come presupposti metodologici del proprio lavoro; i presupposti necessari per elaborare progetti che soddisfino realmente tanto le proprie ambizioni quanto le aspettative di quel pubblico esigente e sempre più maltrattato che ha imparato ad apprezzare l’opera di Wagner, e che perciò non si attende di meno da un’opera narrativa «multiespressiva».
L’opera di Wagner è sicuramente la miglior palestra per la mente e l’animo di un artista completo che non voglia perdere alcuna possibilità di sfruttare al meglio i mezzi espressivi a disposizione per raccontare un complesso intreccio di storie. Nella sua opera sono racchiusi – implicitamente ma non troppo – tutti quei segreti della «multiespressività» e della «multiplanarità» che invano possono essere ricercati in opere teoriche scritte da non artisti, o in opere con ambizioni o presunzioni artistiche realizzate da autori che non hanno studiato la sua opera, che non sono andati umilmente a lezione dal maestro dei maestri.
Le letture ideologiche che hanno penalizzato la sua opera – quanto quella del suo più grande interprete visivo, Franz Stassen – debbono lasciare il posto a uno studio serio e sistematico delle soluzioni metodologiche da lui studiate per i suoi capolavori; soluzioni che si rivelano nuove regole del gioco, per partecipare, da autori e da fruitori preparati, al gioco più bello del mondo: quello di imparare a raccontare, alle nuove generazioni che non conoscono i miti e l’opera lirica, le più belle storie immortali nelle versioni più raffinate composte per il teatro musicale; e di imparare a servirsi, a tale scopo, di parole poetiche, di immagini splendide e di musica ineffabile. Se tanti oggi usano a sproposito l’espressione «opera totale», solo chi l’ha usata per parlare adeguatamente dei suoi stessi progetti ha ancora oggi il diritto di farlo e di insegnare a farlo a chi vorrà studiare in modo rigoroso, insieme a noi, ogni segmento dei suoi capolavori. Perciò è con ammirazione e riconoscenza che abbiamo voluto ridare a Wagner il posto che merita in una Bottega e in un Scuola dove ci impegniamo a farne conoscere gli insegnamenti a cui nessun narratore che coltivi ambizioni artistiche dovrebbe rinunciare.
Gli Studi sistematici che conduciamo in questo Laboratorio vi daranno la possibilità di poter apprendere la narrazione multiespressiva imparando a riconoscerne le regole e le soluzione da e ne l’opera di un autore «onemanband» che ha curato personalmente ogni aspetto della stessa, senza delegare ad altri la sua progettazione e la sua realizzazione, aiuta a comprendere con chiarezza come si crei un’opera immortale. L’opera di Wagner aiuta anche a percorrere il cammino che unisce i suoi capolavori perfetti ai succedanei degradati che oggi si ispirano ad essi con o senza consapevolezza di imitarli riducendoli a stereotipi. E se le nuove generazioni finiscono inconsapevolmente per apprezzare in quei succedanei ciò che di meraviglioso può essere trovato e studiato nell’opera di Wagner, ci sembra giunto il momento – prima che sia troppo tardi – di ridare a lui la parola e il posto che merita nell’educazione dei giovani potenziali fruitori di opere che vanno ricercate, meritate e apprezzate come un tesoro irrinunciabile da portare con sé per tutta la vita. A lui prima di ogni altro maestro spetta anche un ruolo fondamentale nella formazione dei nuovi autori. In questo Laboratorio estrarremo dall’opera di Wagner la sua lezione metodologica riguardo a come si elabora un’opera totale, a come la si costruisce a più livelli narrativi assegnando ad ognuno di essi la forma espressiva più adatta, e a come si crea una rete di correlazioni tra le sue parti attraverso un sistema di leitmotiv che permettano di collegare la rete dei conflitti morali dell’intreccio alla rete delle soluzioni metodologiche del progetto compositivo. Dallo studio multiprospettico di ogni aspetto e livello della sua opera, secondo i principi utilizzati dallo stesso autore per crearla, dallo studio delle sue interne ed esterne correlazioni, in base ai principi utilizzati e alle soluzioni elaborate dallo stesso autore, trarremo uno degli strumenti di studio metodologico più potenti, che metteremo a disposizione di tutti gli allievi della nostra Scuola.
Progettare sotto ogni aspetto un’opera multiespressiva, per lasciare, ai registi e ai direttori d’orchestra, progetti che delimitino gli spazi per una messa in scena originale ma al contempo rispettosa: la lezione metodologica di Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi, insieme a Giulio Ricordi suo degno e illuminato editore, aveva deciso di lasciare ai primi destinatari delle sue stesse opere – i registi e i direttori d’orchestra coevi e futuri – una serie di progetti esemplari riguardo a come portare sulla scena le opere che lo stesso Verdi, nelle sue tante e appassionate lettere, era stato costretto a difendere come figli strappatigli e maltrattati da “esigenze” distributive per soddisfare il «mercato», mai abbastanza pronto – proprio come gli stessi metteur in scene – ad accoglierle, comprenderle e apprezzarle «così come erano state concepite».
Nel mondo attuale si è ricominciato a dare per scontato che, dalla progettazione e dalla realizzazione, curate dall’autore, fino al mercato, curato dai distributori, ci sia di mezzo il diritto e il potere indiscutibile dei produttori e dei distributori stessi di adattare l’opera al gusto degradato del pubblico ma anzitutto di loro stessi. Per quanto riguarda il cinema, basti ricordare i maltrattamenti subiti da un capolavoro come The Magnificent Ambersons di Orson Welles, stuprato dal produttore in assenza e nell’impotenza dell’autore, o Vanina Vanini di Rossellini anch’esso rigirato e rimontato dal produttore senza alcuna possibilità di difesa da parte dell’autore; per entrambi i film si sono perse le realizzazioni originali, e oggi, anche volendo, non si potrebbe ricomporre l’opera così come era stata concepita dagli autori. Sempre oggi, tuttavia, grazie al mercato della distribuzione su disco – ormai anch’esso in via di estinzione – si sono finalmente realizzate versioni «director’s cut» di capolavori che il cinema in sala, controllato dai produttori e distributori delle pellicole, non ha mai consentito di distribuire. Ma la stessa definizione paradossale di «director’s cut» ci dice quanto sia sottovalutato il punto di vista autoriale e quanto pesi, ancora e anzitutto, quello di chi produce, dal momento che non è l’autore ad avere la prima e l’ultima parola sui modi di realizzazione e distribuzione della «sua» opera. Hitchcock, come sappiamo, controllava tutto; della sua opera realizzava lui stesso i trailer e forniva alla stampa e agli esercenti i pressbook per promuoverne la distribuzione. Tuttavia il Cinema, anche se ha sempre sofferto di una censura preventiva o successiva, non ha mai dovuto subire i danni che il Teatro di prosa e quello musicale hanno sopportato per secoli, finendo il più delle volte sconfitti e umiliati dalla realizzazione e distribuzione dei loro capolavori. Se ancora oggi non è possibile vedere in teatro una messa in scena di Oscar Wilde che non sia «ridotta» a farsa; se un autore premio nobel come Harold Pinter nell’ultimo periodo della sua vita si era messo a curare lui stesso la regia dei suoi drammi, stufo di vederli scempiati da registi che non ne rispettavano la complessità e non ne coglievano l’ironia; se Eduardo De Filippo ha voluto lasciarci una messa in scena televisiva da lui curata e interpretata dei suo stessi capolavori (peraltro ignorata dagli attuali metteur en scene che possono agire indisturbati senza il suo consenso); se insomma il Teatro musicale è diventato la «macchia di Rorschach» su cui ogni presunto autore incapace e frustrato si esercita per realizzare le sue provocazioni e far parlare di sé, per tentare di oscurare, con le sue «rivisitazioni», la bellezza di progetti che non sa come mettere in scena – perché non li ha studiati e non li ha capiti – tutto sembrerebbe ormai perso. Persino quella indimenticabile voce fuori dal «coro dei cortigiani» che promuove orride e dimenticabili messe in scena, l voce del caro Paolo Isotta, è purtroppo scomparsa recentemente (ma lui si era già ritirato dall’agone stufo di essere considerato un personaggio indesiderato dai teatri e insultato dai nuovi pseudostudiosi). Tuttavia, per nostra e vostra fortuna, grazie all’illuminato Ricordi sono sopravvissute alcune disposizioni sceniche verdiane, da cui si può ripartire per compiere il necessario cammino di studio metodologico degli insegnamenti di un grande maestro, per imparare a rispettare l’opera e le intenzioni degli autori, e per capire quali siano i “limiti dell’ interpretazione” – per dirla con Umberto Eco – cioè per comprendere come un «autore di una messa in scena» si possa confrontare con «l’autore di un grande progetto narrativo» senza sentirsi umiliato e neppure d’altro canto in diritto di massacrarne l’opera per apparire lui il «genio» (delle «rivisitazioni»). Dalle disposizioni sceniche verdiane si possono comprendere anche le specificità e i limiti dei tanti mestieri che occorre saper padroneggiare per creare un’opera che porti e mantenga la firma dell’autore o degli autori (non dimentichiamo i librettisti) che l’hanno elaborata. Per quanto riguarda il Teatro di prosa abbiamo esempi mirabili di rapporti autoriali, come il film che Louis Malle ha tratto dalla messa in scena di Andre Gregory del Vanja di Anton Čechov. Da esso comprendiamo come ad ognuno dei tre autori – Čechov, Gregory, Malle – spettino meriti differenti che non si confondono ma si valorizzano a vicenda. Molti autori nel cinema hanno realizzato «adattamenti» e «messe in scena” che li hanno consacrati geni della «rivisitazione» solo per mancanza di conoscenza della complessità delle opere da cui avevano tratto le «riduzioni» con cui hanno tentato di oscurare i maestri a cui pure si sono rivolti (con oltraggi mascherati da omaggi) per giustificare e avvalorare le loro operazioni iconoclaste. Al contrario stesso Hitchcock ci ha fatto capire come mai un grande autore come lui, per creare un suo capolavoro, abbia preferito arricchire piccoli progetti autoriali letterari o drammaturgici piuttosto che ridurre grandi progetti letterari o drammaturgici di autori più grandi di lui.
Nel Teatro musicale questi problemi sono emersi sin da quando, per privilegiare le grandi voci che si cimentavano con le difficoltà vocali delle composizioni dei grandi autori di opere immortali, la regia – a differenza della direzione di orchestra che almeno ha goduto di grandi maestri in grado di interpretare al meglio la musica che dirigevano – o non c’è stata o se c’è stata è stata inadeguata, e talvolta peggiorata dalle scarse capacità attoriali dei cantanti. Trovare cantanti che sappiano anche recitare, scenografi che non vogliano esibirsi in costruzioni arbitrarie, e registi che non trascurino il progetto autoriale per fare un proprio progetto riscrivendo l’opera senza alcun rispetto per gli autori è divenuto sempre più difficile. Piuttosto ora assistiamo addirittura a riscritture degli stessi libretti, giustificate da quegli adattamenti, persino istituzionali, devoti alla “Cancel culture”, che hanno portato ad esempio a realizzare un finale “alternativo” per la Carmen di Bizet. A questo va aggiunto che solo da pochi anni, cioè dalla fine de “L’Età d’oro dell’Opera” (per citare l’unico sito che si preoccupa, a nostro avviso, di farne conoscere e preservare lo splendore) si è sollevato il problema della documentazione audiovisiva dei progetti autoriali e si sono investite risorse in riprese audiovisive adeguate (non di pura documentazione) che consentissero la fruizione delle opere anche a distanza di spazio ma soprattutto di tempo. Nonostante le tecnologie audiovisive fossero già disponibili durante l’età d’oro dell’opera (costose ma non tanto da giustificare l’inutilizzo), le riprese video degli spettacoli erano considerate una spesa inutile, presupponendo, come nel teatro di prosa, che la messa in scena debba essere un’esperienza effimera per i pochi che hanno la fortuna di vivere nell’epoca della messa in scena stessa (con ciò contraddicendo l’immortalità dell’opera). Ormai, mentre i teatri si dotano di tecnologie sempre più sofisticate di ripresa, e i nuovi registi godono spesso delle risorse necessarie per realizzare veri e propri film-opera, i buoi sono scappati e il recinto è vuoto. Non vedremo mai più i capolavori del teatro musicale con grandi regie d’opera se non sono stati almeno documentati sia pure in modo inadeguato per studiarli e consentirli di rimetterli in scena. In qualche caso potremo ancora sperare in riallestimenti da parte di più umili registi che vogliano ancora mettere in scena gli allestimenti dei loro maestri. Ma queste operazioni, si sa, non convengono ai Teatri che vogliono dar lavoro ai loro protetti o ai protetti dalla politica. Vedremo però le opere che alcuni registi accorti sono riusciti a far filmare o addirittura a trasformare in film loro stessi, e le confronteremo con quelle nuove messe in scena che si propongono come innovative e originali ma che più spesso non reggono il confronto. In questo scenario disarmante potremo però ancora continuare a sperare di vedere alcune buone messe in scena nate da tentativi di rispettare le disposizioni sceniche verdiane. E quando rimarremo delusi potremo sempre consolarci rileggendo e studiando come Verdi avrebbe voluto veder realizzata la sua opera.
In questa prospettiva noi pensiamo che, con uno strumento metodologico come le disposizioni sceniche verdiane, soprattutto se correlato ad altri strumenti metodologici come quelli che svilupperemo in questo e in altri Laboratori, attraverso lo studio sistematico delle opere dei grandi maestri, si possa cautamente sperare in un ritorno di passione per gli studi sul teatro musicale. Pensiamo che finalmente lo si considererà nella chiave più corretta, come modello per qualunque progetto di narrazione multiespressiva, indipendentemente dai media utilizzati per realizzarlo e distribuirlo. A coloro che dai videoclip, dalle pubblicità, dal cinema di genere, hanno creduto di poter apprendere come trattare la multiespressività e ne sono rimasti delusi, vogliamo offrire ora la possibilità di usufruire di quanto svilupperemo in questo Laboratorio per assegnare alla lezione verdiana la funzione esplicita di manuale di studio della narrazione artistica multiespressiva.
Mettere in scena multimedialmente un racconto artistico in forma multiespressiva: la lezione metodologica di Jean-Pierre Ponnelle
Vogliamo dire subito che noi consideriamo Jean-Pierre Ponnelle il più grande regista che il Teatro musicale abbia mai avuto, e che abbiamo potuto formulare questo giudizio proprio perché lui stesso si è preoccupato di lasciarci un’ampia e chiara traccia della sua insuperata opera di metteur en scene. Grazie al suo prezioso lascito abbiamo infatti potuto visionare e studiare nel migliore dei modi alcuni dei suoi indimenticabili capolavori di regia, e trarne una lezione di metodo. Nonostante, per una beffa del destino, l’autore sia prematuramente deceduto all’apice della sua carriera – a causa un tragico incidente in palcoscenico – tuttavia la sua opera gli sopravvive. Noi, che l’abbiamo studiata e che continuiamo a studiarla, vogliamo fare in modo che gli sopravvivano anche gli insegnamenti in essa racchiusi.
Sono molte le ragioni che ci hanno spinto a scegliere questo eccezionale regista come nostro e vostro mentore e maestro. Fin da quando cominciammo a occuparci di Teatro musicale riconoscemmo in lui un esempio di artista-studioso che, avendo riflettuto più di altri su come lui stesso e altri registi avevano messo in scena le opere del teatro musicale, era in grado di insegnare ad altri ciò che aveva compreso.
Anzitutto gli va riconosciuto il merito di averci regalato delle incredibili messe in scena da lui dirette e da lui fatte filmare – quando ha potuto – da bravi e rispettosi registi televisivi (tra i grandi registi televisivi vogliamo ricordare almeno Brian Large, anch’egli ormai scomparso e purtroppo non sostituito da degni eredi). Ma egli ci ha lasciato anche qualcosa di unico e rivoluzionario sul piano delle possibili integrazioni tra le forme espressive e mediali.
Ponnelle è l’autore che ha saputo creare, oltre a indimenticabili messe in scena teatrali, dei veri e propri «film-opera», in cui si fondono le migliori qualità della messa in scena teatrale e della messa in scena cinematografica per comporre un unico eccezionale spettacolo, fruibile indipendentemente dalla messa in scena in teatro.
Ponnelle ha potuto ancora godere, durante i suoi anni di attività, della possibilità di utilizzare grandi interpreti vocali disposti a recitare sotto la sua guida esperta di registica teatrale, musicale e cinematografico. In questo modo ha potuto consegnarci un pacchetto di messe in scena ben documentate, e in alcun casi (quando poteva disporre del budget necessario) ha potuto trasformarle lui stesso in straordinari film-opera. Dal momento che i migliori cantanti del suo tempo lo stimavano a tal punto da mettersi a sua completa disposizione (Prey, Domingo, Berganza, Alva, Pavarotti, Freni, Te Kanawa, Montarsolo, Cotrubas, Ewing, Gruberova, …) lui ne ha approfittato per condurli, sotto la sua guida, in un universo trasversale alle arti, dove sono diventati veri attori-cantanti, e perciò i migliori interpreti di narrazioni multiespressive che hanno fatto emergere, anziché scomparire, tutta la ricchezza delle opere da lui messe in scena.
Studiando le soluzioni registiche di Ponnelle appare evidente che egli sia l’autore che più di ogni altro ha saputo comprendere e rappresentare le intenzioni e i progetti autoriali dei grandi narratori del teatro musicale. Senza mai ridurli, egli è riuscito a farne apprezzare al pubblico tutta la complessità mostrandone la bellezza come nessun altro regista ha mai fatto prima o dopo di lui. Nelle sue messe in scena sono visibili con disarmante chiarezza i risultati sorprendenti dei suoi lunghi e sistematici studi sulle opere. Il suo lavoro sui testi, e poi con gli attori, per riuscire a trovare soluzioni teatrali e/o cinematografiche per rappresentare tutto quello che aveva compreso studiando l’opera dei maestri, è ricordato da tutti coloro che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui. Ma è nelle sue stesse messe in scena che va ricercata la sua straordinaria lezione di metodo «interpretativo», che può dare ai metteur en scene del futuro un contributo fondamentale alla loro formazione.
Se negli altri Laboratori dedicati al Teatro musicale noi usiamo i progetti interpretativi di Ponnelle per entrare nei progetti narrativi e compositivi di Verdi, Rossini, Mozart e scoprire le soluzioni di questi ultimi, in questo Laboratorio usiamo le medesime messe in scena di Ponnelle per entrare nella sua stessa mente di studioso e di autore per indagare le sue stesse soluzioni registiche, cioè come egli sia riuscito a comprendere l’opera dei maestri, e a narrare altrettanto bene ciò che aveva compreso. Con questo Laboratorio vogliamo fare in modo che la sua mente di umanista, allenata ad analizzare e a progettare sistemi complessi di narrazione e di messa in scena, si riveli ora anche adatta a educare il pubblico e a formare i nuovi interpreti affinché diventino i suoi degni eredi.
Se Roberto Rossellini, venendo dal Cinema, ci ha lasciato una Giovanna D’arco al rogo – dall’oratorio di Paul Claudel e Arthur Honegger- realizzata in forma di film-opera dopo averla messa in scena lui stesso in Teatro, e se Ingmar Bergman, venendo anche lui dal Cinema, ci ha lasciato un meraviglioso film-opera dedicato a Die Zauberflöte di Mozart-Schikaneder, Jean-Pierre Ponnelle, venendo dal teatro e appassionatosi alle possibilità del mezzo cinematografico, ha realizzato un complesso di film-opere senza precedenti, che rende sistematico quello che altri autori avevano solo sperimentato ma non ottenuto con la stessa efficacia. Dalla nostra prospettiva interdisciplinare di integrazione delle forme espressive – che ci autorizza a parlare di una «teoria unificata della narrazione artistica» – i suoi spettacoli multimediali sono la prima e più preziosa risorsa sui cui noi stessi, e i nostri collaboratori e allievi, possiamo condurre studi metodologici. E grazie ai Sistemi che abbiamo già realizzato, e a quelli che realizzeremo, potremo continuare a condurre insieme un’indagine rigorosa tanto dell’opera narrativa e compositiva dei maestri del teatro musicale, quanto dell’opera registica del maestro della messa in scena del teatro musicale stesso.
Mentre ha contribuito, con i suoi progetti, a realizzare la concezione di opera totale di Wagner, al contempo Ponnelle ci ha mostrato, con le sue soluzioni, come i maestri da lui rappresentati abbiano concepito le loro opere come racconti multiespressivi; e sempre attraverso le sue messe in scena continua a mostrarci come un bravo regista, insieme a un bravo direttore d’orchestra, possa interpretarle per la scena in modo al contempo rispettoso e originale, dopo aver studiato un progetto di messa in scena adeguato al progetto narrativo autoriale.
Non sapremo mai quanto fossero ben costruite le messe in scena di Visconti, di cui non resta traccia. Resta qualcosa delle messe in scena di Strehler, di Faggioni; ma di Ponnelle resta molto, per nostra fortuna, anche se soffriamo per l’impossibilità di visionare le sue messe in scena ideate per i tanti capolavori teatrali di cui si è occupato; solo per via indiretta, attraverso testimonianze di collaboratori, e studiosi, possiamo provare a immaginare quali altre soluzioni incredibili aveva pensato per valorizzarli.
A Jean-Pierre Ponnelle abbiamo intenzione di dedicare anche un Sito specifico, in modo da incoraggiare tutti gli eredi, studiosi, ed estimatori del grande regista ad aiutarci a implementarlo, affinché dal recupero e dalla valorizzazione dei suoi archivi possa nascere quell’attività di studio che merita, e che noi, attraverso il nostro Portale e i Laboratori dedicati al Teatro Musicale, cercheremo di contribuire a realizzare.