Le Nuove Botteghe Umanistiche

Gli Ambienti di Studio, Progettazione e Sviluppo, dove trasformiamo «oggetti» inerti e irrelati in «strumenti» di metodo per studiare, con la scienza, le soluzioni e le regole della narrazione artistica, per indagare l’architettura di capolavori immortali, per esplorare la rete delle correlazioni tra le innumerevoli varianti di modelli archetipici, e per scoprire i meccanismi narrativi e compositivi condivisi tra opere distanti tra loro nello spazio, nel tempo, e nelle forme espressive.

I Progetti della Bottega L’Attimo Fuggente

I Progetti della Bottega L’Attimo Fuggente

Studiare il Metodo: i Laboratori dedicati alla riflessione progettuale sulle regole e sulle soluzioni della narrazione artistica in forma visiva

Tra tutte le forme che può assumere la narrazione artistica, quella visiva per immagini statiche è certamente la più penalizzata dai pregiudizi, che gravano su di essa sin da quando l’illusione della riproduzione della realtà, supportata dalla tecnologia, l’ha resa una sorta di magia di cui non si vogliono conoscere i trucchi per non perdere l’illusione.
Più in generale potremmo dire che tutta l’arte è trattata come una scatola nera, come un oggetto imperscrutabile di cui si possono studiare solo la genesi, gli usi culturali, le interpretazioni ideologiche, esoteriche, religiose, l’accoglienza, i modi per sfruttarla, per pubblicizzarla e per venderla come un immobile su cui vale la pena investire denaro.

Non sono molti a voler sapere cosa rende certi «oggetti» tanto ammirati da costituire un tesoro inesauribile di cui gli individui e  le  istituzioni fanno a gara nell’accaparrarsi, sfruttare – e magari rivendere – gli esemplari più “famosi”, guadagnandoci proprio come si fa con ogni immobile considerato adatto per affitto, vendita, ed esercizio commerciale. Stiamo parlando di quegli oggetti che senza la promozione della cultura di massa – che eleva a fenomeni di culto esperienze dimenticabili e da dimenticare una volta passata la moda e sostituite con altre – continuano a resistere alle mode, all’incuria e agli abusi ideologici e commerciali che subiscono senza che la loro bellezza e la fama tramandata dai viaggiatori e dai veri studiosi nonché dagli artisti stessi sia oscurata  dai successi stagionali di prodotti resi famosi dai media.

La cultura di massa dal secolo scorso ha reso anche l’arte un oggetto di lusso, uno “status symbol”, e ha cercato quindi di trasformarla in un fenomeno transitorio soggetto alle mode come “la moda” stessa, pilotato da chi sa indirizzare il gusto degradato del pubblico e fare di oggetti sconosciuti dei successi stagionali. Anche l’arte è ormai stampata e distribuita ovunque come un “brand” tra gli altri, usata come sfondo per sfilate di moda, come attrazione per turisti che vogliono anch’essi uno sfondo adeguato per i loro selfie, e come oggetto d’arredamento al pari di qualunque prodotto artigianale o griffato.

Pochi ricordano ancora – forse coloro che hanno avuto la fortuna di apprendere l’arte da un bravo maestro – che l’arte è «informazione», anche se informazione qualitativamente e quantitativamente superiore a tutta quella che passa mescolata con essa – il rumore e l’entropia – attraverso i mass media e la rete. E in quanto informazione particolarmente preziosa, distillato di menti sopraffine, essa dovrebbe arricchire la mente – e non le casse – di chi abbia la fortuna di poterla avere a disposizione, per fruirla e studiarla; una fortuna sempre più difficile da ottenere, date le condizioni in cui molti capolavori artistici sono oggi gelosamente conservati da chi se ne è appropriato per rivenderne il diritto d’uso. Il resto è lasciato all’oblio e all’incuria in attesa che qualcuno se ne voglia appropriare per trasformarla in un simbolo del proprio patrimonio o in un redditizio strumento per vendere i propri prodotti associandoli ad essa.
Così mentre un’opera da sola può muovere masse di persone e di denaro, il resto del nostro patrimonio artistico sembra destinato all’oblio, al degrado e all’incuria da parte di quelle stesse istituzioni che mentre insultano il turismo di massa lo sfruttano, ci lucrano, ed evitano di investire sulla meno immediatamente remunerativa valorizzazione di tutto il territorio ove siano presenti opere di valore artistico.    

Il paradosso è che chi colleziona e possiede l’arte come bene di lusso e investimento economico più sicuro di altri beni, di solito non sa decifrarla, non sa trarre neppure una piccola parte di tutta la ricchezza informativa che essa possiede, ma si limita a venerarla e ad esibirla come un trofeo, proprio come farebbe come un leone impagliato, che probabilmente espone  accanto ad essa.

D’altro canto, chi è ancora desideroso di imparare, come essa si crea e come essa funziona, non ha vita facile, sia perché incontra  non poche difficoltà per fruirla nelle condizioni adatte, sia perché non dispone degli strumenti e dei maestri che possano insegnargli come comprendere e fare arte con la scienza.
L’arte è oggi spesso considerata, persino dalle istituzioni educative e formative, qualcosa che  non si può insegnare, un dono innato per chi la sa fare e un oggetto misterioso che si può solo ammirare, che contiene segreti di cui persino gli autori – secondo questo pregiudizio – non sarebbero a conoscenza. Di qui gli usi dietrologici, gli abusi e le strumentalizzazioni dell’arte, trattata come materia ideale per chi  dell’interpretazione e della sovrainterpretazione ha fatto un mestiere. Questi critici/mercanti d’arte si sono autoinvestiti sacerdoti dell’arte, hanno indossato i panni di «psicoanalisti degli autori a loro insaputa» – o talvolta con la loro benedizione, dal momento che solo critici/mercanti hanno modo, oggi, di decretare il successo e il prezzo di un’opera – e si arrogano il diritto di essere i soli a poter/saper leggere nella mente confusa dell’artista, spiegando a lui stesso ciò che loro hanno visto “dietro” la sua opera, decretando con ciò il suo valore effimero e instabile come i titoli di un mercato azionario dell’arte.

Noi da decenni ci occupiamo di come entrare e come farvi entrare in quella «scatola nera» a cui vi è vietato e impedito l’accesso. Abbiamo creato il nostro Istituto per capire e farvi capire come è fatta e perché è fatta proprio in quel modo per poter funzionare; e ci siamo dati il compito di insegnarvi come la si può studiare, comprendere, e apprezzare, e come la si progetta.
Da quando abbiamo iniziato a operare ci adoperiamo per diffondere – attraverso i Sistemi di Studio Reticolare, i Sentieri Esplorativi, e i Cicli di lezioni – la nostra attività di studio sistematico dei capolavori artistici nonché di ricerca metodologica dei principi che ne regolano il funzionamento.
Ora voi avete la possibilità di fruire di tutto quello che in questo Laboratorio stiamo sviluppando, e di poter persino partecipare al Laboratorio stesso, se vi siete formati con noi per prepararvi all’impresa.

Forse sapete che nelle attività di “Intelligence” la figura dell’«analista» è cruciale anzitutto per due ragioni anzitutto: la prima consiste nel discernere le informazioni dalle false informazioni e dalla non informazione; la seconda consiste nel connettere tra loro informazioni non immediatamente correlabili, trovando quelle che indirettamente le correlino tra loro. Provate ora a imaginare come questa attività «analitica» possa essere trasportata nel campo di cui ci stiamo occupando, per voi e con voi. Acquisire strumenti metodologici, e farli acquisire anche a voi, anzitutto implica sapere dove andarli a cercare. E l’oggetto a cui si applicano è cosa ben diversa dagli strumenti che si adoperano a tale scopo. L’arte non si studia e non si fa con l’arte ma con la scienza, anche se la materia di cui l’arte stessa è fatta è per lo più arte e solo in parte vita. Ma una volta compreso che gli strumenti che ci e vi occorrono per capire come fare sono altrove e vanno cercati tra le pieghe di discipline che da tempo non si accompagnano più agli studi artistici, e una volta avviata la propria formazione in quei campi propriamente scientifici, occorre unire allo studio metodologico una continua e sistematica esercitazione e retroazione tra studi applicativi e studi metodologici. Solo in questo modo le teorie non rimangono solo teorie e gli studi non rimangono solo empiriche raccolte e classificazioni di farfalle, come ci ha insegnato un grande epistemologo prestato allo studio della materia delle scienze sociali.

Questa preparazione metodologica è una condizione preliminare, necessaria per diventare bravi «analisti». Tuttavia essa non basta; lavorando su quell’oggetto straordinario che è l’informazione artistica occorre imparare e insegnare a distinguere tra ciò che è informativo, ciò che è iperinformativo, ciò che pertiene al campo dei fenomeni culturali di interesse antropologico, e ciò che invece può essere studiato per le sue forme propriamente artistiche. Occorre anche imparare a correlare informazioni distanti nello spazio, nel tempo, e nelle forme espressive. E occorre imparare a riconoscere e rappresentare le correlazioni interne ed esterne ad un capolavoro per costruire sentieri esplorativi, viaggi intra- e inter- testuali, ed espanderli, implementarli attraverso le proprie esperienze conoscitive. Questi sono i compiti didattici e formativi che ci siamo dati e che con piacere svolgeremo, negli Ambienti di Studio, con voi e per voi.

Ma ci sono alcuni presupposti, anch’essi metodologici, che possono ostacolare o favorire il nostro lavoro. Se essi non vengono chiariti e appresi, al loro posto si intromettono pericolosi pregiudizi; soprattutto quel «senso comune» di cui la rete è piena, che ben si nasconde e confonde proprio con l’informazione scientifica e artistica che tende a sostituire progressivamente e irreversibilmente.
Uno dei maggiori ostacoli che oggi dobbiamo affrontare per poter svolgere la nostra attività educational no profit riguarda la mai chiarita (anche se di proposte di legge intelligenti negli anni ce ne sono state tante, tutte cancellate dalla politica sostenuta e pilotata dai giganti della Comunicazione e dell’Editoria). Nel momento in cui scriviamo la situazione sta peggiorando: con le nuove normative che il nostro Paese ha intenzione di attuare viene da domandarsi come si possa ancora studiare e insegnare la lezione di metodo racchiusa nei capolavori della nostra tradizione umanistica, se chi dovrebbe tutelarli chiede soldi anche per usi educational no profit. E di conseguenza si è assaliti dallo sconforto. L’educational continua a non essere protetto; o peggio, è usato come paravento per attività che con il no-profit non hanno nei fatti nulla a che vedere. E chi come noi lo fa davvero, si trova ad essere considerato di fatto come se fosse un’azienda che vuol lucrare con i fondi destinati all’educazione e alla crescita culturale, con i quali, come è noto, si fa assistenzialismo ai parenti scemi dei potenti.

Ma noi non ci scoraggiamo facilmente, e quando siamo calpestati risorgiamo dalle nostre ceneri. Molti saranno sorpresi di ritrovarci qui, online, con tante nuove idee per continuare la nostra attività, superando gli ostacoli oggettivi che nel frattempo sono stati creati per dissuadere chiunque abbia ambizioni come le nostre.
Contro la politica dello sfruttamento selvaggio dei beni culturali e di una standardizzazione culturale verso il basso attraverso politiche educative fintamente democratiche, noi abbiamo studiato soluzioni per rivolgerci direttamente ai potenziali interessati e renderli artefici della loro stesa crescita, con il nostro aiuto, senza più aspettare quegli aiuti istituzionali ormai sostituiti da succedanei concepiti solo per aiutare gli aiutanti e fare di loro una casta di mantenuti.

Dal momento che il nostro Paese e la “vecchia Europa” conservano ancora, sia pure immeritatamente – cioè senza tutelarlo adeguatamente – il maggior numero di opere artistiche che hanno superato indenni o quasi ogni umana barbarie, oltre che l’usura del tempo e le periodiche catastrofi, noi vogliamo contribuire, qui, a realizzare strumenti più adeguati per far emergere il valore «informativo» e «formativo» di queste opere al di là di quello spettacolare che immediatamente esse mostrano, e al di là di quello economico che motiva i legittimi e accidentali custodi a lucrare su di esse, come se il renderli eredi (e litiganti intorno a chi sia in diritto di possederli e di sfruttarli a scopo turistico e pubblicitario) dia loro anche il diritto di deciderne le sorti proprio mentre le proclamano “patrimonio dell’umanità”.   

Una buona notizia è che ora finalmente, grazie al digitale possiamo aspirare ad assumere ad oggetto di studio e didattica l’intera opera di un grande autore, senza dover visionare gli originali e lasciandola lì dove si trova, purché i legittimi proprietari, eredi, custodi, interpretando nel senso più  nobile l’espressione “patrimonio dell’umanità”  decidano di rendere accessibili almeno delle riproduzioni adeguate a rendere possibile, e non ridicolo, lo studio di esse. Iniziative come quella di realizzare “Mostre impossibili”, esponendo materialmente in qualunque luogo l’insieme dell’opera di un autore attraverso riproduzioni fotografiche di alta qualità da un lato sembra fare un passo in questa direzione, da un altro sembra solo un modo per poter sfruttare maggiormente il patrimonio per creare eventi e sfondi virtuali che nel migliori dei casi promuovono la conoscenza e lo studio ma non  costituiscono parte dello strumento  per consentirlo. Anche i film che sono stati realizzati negli ultimi anni per lasciare documentazione di mostre ormai dismesse o per documentare tesori di musei che raramente vengono esposti al pubblico sono iniziative che vanno in questa direzione soprattutto perché permettono di vedere le opere come non le si può mai vedere dal vivo. Ma il vero passo avanti è rendere questa esperienza di visione parte di uno studio individuale o di un’attività didattica che possa avvalersene offrendo l’accesso a tali risorse digitali da un dispositivo adatto allo studio e alla didattica che permetta di far interagire le immagini con un Sistema di indagine, esplorazione e correlazione come quello che noi costruiamo da anni pur non disponendo ancora di tali risorse

Un’altra buona notizia è che esiste per nostra fortuna una documentazione fotografica di alta qualità che ci consente di vedere ancora opere di cui ormai rimangono solo «esiti», misere «tracce» per far leva sull’immaginazione dei visitatori, che non possono vedere quello che non c’è più dal momento che ci si è accorti troppo tardi che i supporti  andavano perdendosi per deterioramento e incuria. È paradossale che si possa studiare un capolavoro meglio sulla documentazione del suo glorioso passato che sulla visione dal vivo delle sue ceneri; ma  così è per tanta parte del patrimonio artistico ormai trattato solo come richiamo per processioni di turisti.

Mentre ringraziamo quei musei e quelle altre Istituzioni che si stanno dando da fare in tal senso, addirittura sperimentando la distribuzione online  di digitalizzazioni di qualità e a risoluzioni tali da offrire una visione migliore di quella dal vivo, ci ricordiamo e vi invitiamo a ricordare quelle immagini indecenti, piccole, a bassissima risoluzione, bicolore, che pure ci hanno permesso di capire e studiare qualcosa delle immagini che essere rappresentavano – male – e che hanno spinto alcuni «puristi» a dire che le opere di arte visiva non si possano in nessun caso fruire e studiare se non nei luoghi dove sono state collocate, o spostate.

Al di là del problema del «contesto», che solo in alcuni casi ha davvero valore per la comprensione delle opere d’arte così come la tecnologia usata per realizzarle, il problema delle condizioni in cui fruirle – che evidentemente parte dal problema della luce e dell’illuminazione, oltre che dal deterioramento dell’opera stessa – è reso paradossalmente evidente  dagli ostacoli che involontariamente gli stessi espositori pongono alla fruizione (dietro un vetro in mezzo alla folla e a una distanza che li rende visibili solo indistintamente e globalmente?) e più che mai allo studio.

Pensate al cinema. Quando mai si è potuto studiare seriamente e veramente un film prima dell’avvento del videoregistratore? Mentre venivano premiati gli errori marchiani commessi da chi, con i soli ricordi, ricostruiva l’architettura di opere viste una sola volta senza soluzione di continuità, e narrava ai suoi lettori quali reazioni erano state provocate nel suo animo dalla sorprendente visione (come un paziente davanti ad una Macchia di Rorschach), noi cominciammo a studiare il cinema andando nelle sale con un taccuino e una lampadina, vedendo e rivedendo i film senza però mai poter esercitare pienamente quella attività «anatomica» che è necessaria quando lo si «studia», e non lo si «fruisce» soltanto. Quell’attività va condotta con uno strumento metodologico adatto (una mente allenata all’elaborazione delle informazioni), e con uno tecnologico altrettanto adatto, che consenta di ingrandire, rallentare, fermare, e far tornare indietro le immagini in movimento, per confrontare e correlare le articolazioni  del racconto attraverso la memoria elaborativa.

Così, quando abbiamo finalmente potuto «vedere» i quadri e le opere architettoniche ingrandite e da più prospettive, quando abbiamo potuto confrontarle con altre a fianco ad esse, ed esaminarne ogni articolazione separatamente e nelle correlazioni con le altre, quando abbiamo potuto noi stessi illuminare, retroilluminare, e correggere le imperfezioni e le usure del tempo con un semplice software di fotoritocco, ecco che abbiamo potuto iniziare davvero a comprendere e a poter insegnare che cosa rende quegli oggetti dei capolavori immortali, ma di cui pochi, ancora, saprebbero spiegare le ragioni per cui proprio quelli sono da considerare «capolavori», mentre altri oggetti, apparentemente simili, sono da considerare solo patacche per turisti e teleacquirenti impreparati.

I Laboratori metodologici che intendiamo avviare in questa articolazione della Bottega riguardano problemi cruciali che possono complicare o agevolare la fruizione e lo studio della narrazione per immagini statiche e quindi la comprensione di quel patrimonio artistico di cui potreste godere appieno se solo aveste le necessarie le capacità per farlo.
Una reale valorizzazione del patrimonio artistico, intesa non come monetizzazione dello stesso, non può avvenire senza che se ne sia compreso il «valore» informativo e si sia compreso che tipo di uso se ne possa fare per contribuire alla crescita umana e professionale delle nuove generazioni che ne diverranno così non solo custodi ma anche continuatrici della sua espansione.
Le lezioni di metodo che abbiamo ricavato dallo studio delle opere dei maestri divengono qui strumenti per analizzare delle questioni trasversali che costituiscono premesse non esplicitate e non chiarite di qualunque studio testuale, e che in quanto tali possono precludere e condizionare la vostra esperienza di visione e più che mai di studio dell’arte.

 

La Falsificazione nell’arte

Diciamo subito che l’aspetto più interessante di questo Laboratorio è quello più paradossale, che lo caratterizza sotto ogni aspetto. Dal momento che l’Arte è informazione, la falsificazione dell’informazione può essere infatti intesa solo come una sorta di gioco logico, interessante nella misura in cui induce riflessioni metodologiche che aiutano a chiarire di cosa si parla quando si parla di “falsi” e con con quali strumenti si può comprendere e padroneggiare il fenomeno della «falsificazione» anziché subirlo. 
Ogni risposta che si può dare alla domanda solo apparentemente chiara – “cosa vuol dire falsificare l’arte” – esplicita quel nonsense incluso nella domanda stessa che porta alla luce le  contraddizioni implicite nei criteri con cui si giudica l’arte quando non ci si domanda cosa distingua l’arte da altri fenomeni, e di conseguenza come si riconosca un prodotto artistico nel mare di spazzatura che è di solito associato ad essa.
La parola “fake” da un po’ di tempo viene associata alle “news”, almeno da quando il mondo della “comunicazione” si è imposto al punto da cancellare ogni altro modo per raccogliere «informazioni», schiacciando e umiliando la forma «conoscitiva», come se fosse inferiore anziché che più attendibile rispetto a quella «comunicativa».
Ma se già appare paradossale che per le notizie diffuse dai mass media si voglia parlare di “vero” e “falso” mentre la diceria e il pregiudizio  prevalgono sulla ricerca della verità, per quanto riguarda l’arte le cose sono molto più complesse e il problema appare addirittura insensato.
Ogni autore e ogni fruitore preparato sa che le verità dell’arte non vanno ricercate in una presunta documentazione attendibile di eventi particolari realmente accaduti, ma nella scoperta di quei sentimenti universali che ogni racconto artistico fa emergere attraverso le imprese dei propri  personaggi. Tuttavia, anche se è ridicolo trattare l’arte come un documento storico, antropologico, giornalistico, o addirittura probatorio, per essa si continua ad adottare l’ingenuo o  ideologico criterio del “vero” e del “falso” per tentare di ridurla a testimonianza, a denuncia, a messaggio moralistico dottrinale e indiscutibile. La parola “arte” come la parola “scienza” è diventata – lo sappiamo tutti – un prefisso con cui avvalorare discorsi, lezioni, e prodotti di scarsa qualità ma  fondati su verità di senso comune, articolati in forma di discorsi verosimili e credibili, e smerciati come fossero dimostrazioni scientifiche mentre sono  esattamente l’opposto.
In questo senso dovremmo dire che i «falsi capolavori artistici» sono quei tanti prodotti che, anziché farci esplorare e indagare fenomeni complessi e farci scoprire quelle verità non percepibili immediatamente e superficialmente, si presentano come succedanei ben confezionati adatti per diffondere luoghi comuni, in quanto presentano il «sentito dire» come se fosse una verità di valore universale, proprio come quelle che solo la scienza e l’arte sanno raggiungere.
Un altro modo non meno paradossale di intendere la falsificazione è quello di considerarla come contraffazione dei supporti. Con ciò si ammette che l’arte per alcuni – i critici/mercanti di arte – è solo un reperto antico e unico da vendere per il valore economico che riveste grazie all’età del supporto, al valore antiquario e alla rarità dell’oggetto, come quei mobili antichi di cui tutti i benestanti cercano di accaparrarsi qualche esemplare, ma di cui nel mercato dell’«antiquariato» (e del «falsificato») esistono tante «riproduzioni invecchiate» vendute come “originali”, le quali perdono improvvisamente di valore quando qualche esperto ne attesta la falsità.
In entrambi i casi appare chiaro che l’arte è usata per operazioni che con l’arte non hanno nulla a che fare.
Ma è invece molto interessante domandarsi se la lotta contro la falsificazione sia solo un modo per impedire la proliferazione di «esemplari adeguati a diffondere le medesime informazioni», così da non far crollare il valore dei pezzi unici; o se, invece, sia un modo – mosso da più nobili intenzioni – per evitare la proliferazione di esemplari degradati che semplificano la complessità dell’arte riducendola a statuette, cartoline, riproduzioni industriali di bassa qualità adatte al redditizio mercato dei souvenir per turisti.   
La «falsificazione» intesa come paradosso che aiuta a capire meglio cosa è l’arte ci ha sempre interessati, così come ci hanno interessato i diari, le confessioni vere o false di falsari per professione o per licenza artistica che, con i loro progetti metanarrativi, esplicitano e denunciano la falsità implicita nella comunicazione di massa. Gli scritti di Clifford Irving, il film F for Fake di Orson Welles sono solo alcuni dei tanti studi drammatizzati che prenderemo in esame in questo Laboratorio per far luce su questo fenomeno trasversale ad ogni forma d’arte che ci e vi aiuta a comprendere sul piano metodologico di cosa è fatta, come si fa, e come funziona l’arte narrativa.
La falsificazione non appartiene solo all’arte, perché, soprattutto nel mondo contemporaneo si nutre di quella confusione – oggi alimentata dalla cultura di massa – per smerciare prodotti senza qualità; ma implicitamente è stata praticata anche dai più grandi artisti per riprodurre e rivendere ulteriori esemplari dei loro capolavori, progetti malpagati che potevano farli sopravvivere solo se venduti in più copie. In questo Laboratorio studieremo anche come i più grandi narratori siano stati essi stessi falsari di eccezione e come abbiano stabilito patti impliciti con i più grandi falsari in grado di espandere la loro opera creando nuove stagioni e prolungandola persino oltre la vita dell’autore. 
La falsificazione è anche la vera cartina al tornasole della grande truffa istituzionale che sta affliggendo tutta l’arte nella contemporaneità, e che non può essere ignorata neppure da questo Laboratorio.
Ma la falsificazione è anche ciò che ci consente di capire cosa è la ricerca, lo stile, il progetto di un autore; cosa vuol dire ereditarne e continuarne il lavoro; e cosa vuol dire invece sfruttare la sua fama per diffondere succedanei impoveriti come le “divulgazioni” che falsificano il suo pensiero e la sua ricerca.
Studiare l’opera dei grandi autori e dei grandi falsari aiuta a far emergere questioni di metodo di grande importanza per chiunque voglia affrontare la progettazione e lo studio dell’arte senza mentire a se stesso e al suo pubblico, o peggio senza mentire ai suoi clienti e venditori. Lo studio della falsificazione costringe a chiedersi se si vuole diffondere arte o spacciare oggetti di moda, griffati certificati e a tiratura limitata, per feticisti pronti a illudersi e a pagare qualunque somma per diventarne gli esclusivi proprietari.
Da questo Laboratorio trarremo strumenti per tutti gli Ambienti di Studio che vorrete frequentare, per aiutarvi a capire quando vi stanno truffando, quando vi state illudendo, e quando invece vi state avvicinando a scoprire la ricchezza di un’opera d’arte.

 

L’illustrazione e il rapporto tra testi letterari e immagini

I rapporti possibili e virtuosi tra testi letterari e immagini possono essere studiati efficacemente prendendo in esame le edizioni benfatte o malfatte di tutti i grandi racconti per l’infanzia. Ma per i fini metodologici di questo Laboratorio sono particolarmente interessanti i casi costituiti dalle edizioni d’arte di testi artistici in cui le immagini sono state concepite sin dall’inizio come un «complemento» «informativo» e non come un «abbellimento» «ridondante» della scrittura  letteraria. Sono i casi in cui il racconto nasce come progetto narrativo «multiespressivo», «a quattro mani», di uno scrittore e di un pittore, in alcuni casi rappresentati da una stessa persona.
Studiare come interagiscono le immagini e le parole in un racconto artistico è una cosa che aiuta a capire come gli artisti figurativi possano collaborare con altri artisti e creare un racconto che funzioni proprio grazie all’integrazione delle forme espressive. 
Questo Laboratorio prende in esame le grandi collaborazioni tra compositori letterari e visivi, e le grandi opere pittoriche dedicate a testi letterari con cui hanno creato un’interazione a distanza, interpretandoli e contribuendo a riscriverli e metterli in scena.
In questo senso il Laboratorio va inteso come uno studio metodologico destinato a creare un Sistema che vi aiuti a comprendere come i capolavori artistici letterari e pittorici dialoghino tra loro anche attraverso le soluzioni espressive ed editoriali che li correlano internamente ed esternamente.
Considerata erroneamente un’attività artistica inferiore, l’illustrazione, intesa come contributo pittorico a un progetto narrativo, ci porta nel cuore del problema della narrazione multiespressiva, invitandoci a distinguere all’interno dei casi di non ridondanza: quelli in cui testo visivo è complementare a quello letterario e interagisce con esso in una relazione reciproca di domande/risposte; e quelli in cui il testo visivo interpreta o è interpretato da quello letterario.
Questo Laboratorio potrà fornire ad ognuno di voi, negli Ambienti di Studio che vorrete frequentare, gli strumenti adatti per comprendere e apprezzare quelle meravigliose risorse artistiche costituite dai libri illustrati, dalle tavole pittoriche, dai cicli dedicati dai grandi artisti alla narrazione mitologica, alle leggende e alle storie immortali, che sono state tramandate da un autore all’altro non solo attraverso le parole ma anche attraverso una ricca iconografia, che si lega ad esse e che costituisce con esse la materia su cui ogni artista lavora, elaborandola in nuovi racconti.

 

Natura e Scienza nell’arte della visione

Lo studio scientifico delle forme naturali, della materia, della fisiologia, della chimica, dell’architettura di quella natura interna ed esterna a cui l’arte si ispira, che sfrutta, e che persino rappresenta, ha costituito da sempre la base e il presupposto per la progettazione artistica di forme adeguate a rappresentare universi, personaggi e sentimenti come quelli narrati dai grandi maestri; i quali, prima di essere stati bravi scrittori o pittori o   drammaturghi, hanno anche dovuto imparare come dare forma narrativa a pensieri e informazioni depositate, frutto di studi in forma scientifica che solo l’arte, da sempre, può trasformare in racconto adeguato alla loro complessità.
Ma comprendere che lo studio della percezione e della fisiologia delle espressioni possa andare di pari passo con lo studio di quell’«atlante» dei «sentimenti universali» che ogni autore deve conoscere tanto quanto quello delle «espressioni universali», per creare personaggi che non siano stereotipati come burattini o come maschere della commedia dell’arte, questo è un argomento di carattere metodologico che merita uno studio approfondito e un Laboratorio specifico ad esso dedicato.
L’anatomia delle architetture naturali e di quelle artistiche attraverso lo stesso strumento scientifico, la loro comparazione e la ricerca delle correlazioni nella struttura e nelle forme compositive costituisce un presupposto metodologico indispensabile per chiunque voglia scoprire quanto c’è di naturale, di necessario e di  possibile alla base delle scelte artistiche, e come esse traggano ispirazione dalle soluzioni naturali per costruire su di esse un nuovo piano, governato da principi etici e morali che pure affondano le loro radici in quella enciclopedia dei sentimenti e delle espressioni che dalla natura intraspecifica trae origine.
Guardare, osservare, vedere; ricevere informazioni, ricavarle, elaborarle; capire, ipotizzare, interpretare; queste sono solo alcune delle tante distinzioni metodologiche che in questo Laboratorio si studiano per consentirvi di acquisire voi stessi – negli Ambienti di Studio in cui distribuiremo i risultati di questo Laboratorio – la strumentazione più adatta per viaggiare tra i testi artistici e imparare a scalarli.

 

L’arte nelle ere della rivoluzione ottica, della riproducibilità tecnica, della fotografia, del cinema e della televisione, e del digitale online senza supporto

Quando David Hockney, con un suo progetto sia letterario che audiovisivo, suscitò tanto scalpore nello studio e nella critica dell’arte, rivelando un uovo di colombo che doveva rimanere nel non detto e non mostrato per non danneggiare gli interessi comuni dei pittori e dei loro venditori promotori, sembrò che lui stesso si stesse dando la zappa sui piedi.
Ma la sua voce fuori dal coro ha finalmente dato un seguito tanto atteso alle conseguenze ipotizzate, ma mai realmente affrontate, di quella rivoluzione tecnologica che Walter Benjamin – con il suo famoso saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – aveva invitato tuti a considerare, prima che si cercasse, come è avvenuto, di nasconderle per interessi    meramente commerciali.
Lo studio di Hockney ha accelerato un processo di ricerca e sperimentazione che ha raggiunto il suo culmine quando il film-saggio Tim’s Vermeer di Tim Jenison – con la sua messa in scena esplicita di una sperimentazione compiuta con criteri scientifici – ha rivelato la messa in scena implicita su cui si basa quasi tutta l’arte contemporanea, quella a cui lo stesso Hockney non vuole appartenere, pur essendo un pittore contemporaneo. 
I numerosi e rigorosi studi che hanno preceduto – o che sono stati stimolati da – questi due casi clamorosi si aggiungono ad essi come strumenti adeguati per osservare e analizzare con molta attenzione quel processo di transizione in cui storicamente e tecnologicamente le arti visive hanno iniziato a servirsi di «macchine», in particolare di dispositivi ottici, per realizzare progetti arditi proprio come quelli che in architettura, sin dalla sua stessa nascita, hanno richiesto macchine per calcolare e realizzare le complesse costruzioni che ancora resistono, e che sfidano insieme la forza di gravità e la percezione visiva. 
Da quando l’arte della visione ha dovuto fare i conti con gli antenati della fotografia, poi con la fotografia stessa ora divenuta digitale, e poi con il cinema e la televisione, e finalmente con le immagini sintetiche dell’era digitale, il «castello di carta» (nel vero senso della parola, cioè di cartone, tela, vernice) su cui si è potuto per tanto tempo attribuire agli artisti un’abilità esclusivamente artigianale, si è progressivamente sgretolato, lasciando infine attoniti tutti coloro che, tutt’ora, non riescono a vedere nell’arte un progetto comunicativo complesso e un modo iperinformativo di elaborare le informazioni già depositate e  tramandate in qualche forma di memoria.
A rappresentare l’arte oggi sono rimasti quei pochi, soli e veri artisti, che non hanno da offrire semplicemente una «trovata», un’idea equivalente a una «barzelletta», con cui sostenere la propria misera impalcatura, giustificare il proprio inconsistente progetto, e soddisfare i propri fan, clienti, e agenti che attendono con ansia una nuova provocazione.
Gli artisti che hanno saputo far tesoro di ogni rivoluzione tecnologica – dalla stampa, dalla fotografia, dal cinema, e dalla televisione fino alla trasmissione digitale online in streaming senza supporto – anziché cercare di sfruttarla per nascondere la propria impreparazione artistica, oggi    appaiono con ancor più evidenza quelli che sono riusciti a ideare progetti tanto complessi da poterne demandare la realizzazione a collaboratori e tecnici, senza perdere, con ciò, la loro identità artistica.
In questo Laboratorio ci occupiamo del rapporto tra i progetti e i supporti su cui memorizzarne e da cui distribuirne la realizzazione; ci occupiamo anche della riproducibilità degli esemplari realizzati da un medesimo progetto; e della possibilità di sviluppare più esiti varianti da un medesimo progetto, ad esempio con la serialità; e infine della possibilità di concepire un’intera opera come un sistema di variazioni, come un unico progetto che, come tale, possa essere sviluppato in tanti capolavori varianti di un medesimo modello logico e interrelati tra loro in un rapporto virtuoso tra ripetizione e variazione.